Never Rarely Sometimes Always

USA 2020 (101′)

BERLINO 70°: Gran Premio della Giuria

 BERLINO – Era stato dato da molti come uno dei più seri candidati all’Orso d’oro, questo Never Rarely Sometimes Always; e anche se alla fine ha dovuto accontentarsi del Gran premio della giuria, rimane forse la più bella sorpresa di questa 70esima Berlinale. Un film se vogliamo molto ‘indie’ (non per niente proveniente dalla inesauribile fucina del Sundance), e però di una originalità, di una spontaneità, di un realismo, di una accuratezza formale e di recitazione straordinari.

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There Is No Evil

Sheytan vojud nadara
Germania/Repubblica ceca/Iran 2020 (150′)

BERLINO 70° – Orso d’oro

 BERLINO – There is No Evil è il titolo internazionale di Sheytan vojud nadarad, film vincitore dell’orso d’oro a Berlino 2020. L’autore, Mohammad Rasoulof, si era già messo in evidenza un paio di anni fa a Cannes con Lerd (Un Homme Intègre), premiato come miglior film della sezione Un certain regard; ma da allora caduto in disgrazia nel suo paese, privato del passaporto e accusato di propaganda e attentato alla sicurezza dello stato.

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Là dove scende il fiume

1880, pionieri in viaggio verso l’Oregon (150 miglia a Est di Portland). Carri e praterie, ma anche trasbordi sul Columbia. Dovranno fare i conti con un attacco degli Shoshoni e con l’avidità di avventurieri e cercatori d’oro che cercano di impadronirsi dei viveri di cui la carovana ha bisogno. La guida Glyn McLyntock, ex bandito del Missouri in cerca di redenzione, a cui si affianca Cole, anch’egli con un oscuro passato (Kansas), del quale si innamora Laura, la figlia del capo carovana. L’esito dell’avventura sarà in bilico fino alla fine tra valichi innevati, fiumi da attraversare, imboscate e sparatorie. L’ostacolo più arduo sarà legato alla slealtà e al tradimento che minerà l’amicizia e l’amore.

Bend of the River
USA 1952 (91′)

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Il grande sentiero

Oklahoma, 1878. Umiliati dalle promesse non mantenute del governo americano gli ultimi Cheyenne (286!) affrontano uno stremante viaggio (3000 miglia) verso lo Yellowstone (Wyoming), la terra dei padri. Imbracceranno al bisogno le armi, guaderanno fiumi, valicheranno inaspettati confini (i binari della ferrovia) e affronteranno la fame, la neve e il gelo, fino a cercare provvisorio rifugio a Fort Robinson. In fuga dopo un ulteriore cruento massacro, l’incontro sulle colline del Dakota con il segretario all’interno apre ai superstiti l’opportunità di procedere nel loro cammino insediandosi nella riserva di Powder River: il sentiero dell’autunno di un popolo.

Cheyenne Autumn
USA 1964 (154′)

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Time

Seh-hee e Ji-woo sono una giovane coppia all’apparenza affiatata e in perfetta armonia. Lei, però, è quotidianamente pervasa dalla gelosia, e mal sopporta le occhiate del suo compagno verso altre donne. Spaventata dallo scorrere del tempo e dall’idea che lui si possa stancare del suo volto, la ragazza si convince che l’unica soluzione sia affidare il suo volto alla di chirurgia plastica…Kim Ki-duk sfiora il boom dell’estetica del bisturi e la doppia personalità. Un film sofisticato, inquietante e calibratissimo: ancora una volta la scenografia e le scelte formali assumono per il regista coreano un’importanza pari a quella dei personaggi.

Shi gan
Corea del Sud/Giappone 2006 (97′)

 – Cineasta del silenzio, Kim Ki-duk realizza con Time la sua opera più discussa. Discussa, si badi, solo internamente, nel profluvio di parole che i protagonisti si rivolgono l’un l’altro, dacché molti critici festivalieri non hanno certo dovuto confrontarsi a lungo prima di decretarla opera irrisolta di un cineasta in declino. Alla distanza, possiamo dire che si siano sbagliati.

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Poetry

Una donna vive sola con l’unico figlio, un giovane timido e asociale che trascorre il tempo chiuso in casa. Quando nella loro città viene commesso un omicidio, la polizia arresta il figlio della donna solamente perché è privo di alibi. L’avvocato della difesa non è in grado di provarne l’innocenza così toccherà alla madre indagare per contro proprio per scagionare l’amato figlio, scoprendo, tra le sue abituali frequentazioni, un mondo nascosto di intrighi e violenze… Un film che scardina convenzioni e regole per reinventare la realtà nello sguardo e nelle azioni di una donna che soffre si dispera, immersa cuore profondo (e selvaggio) della società coreana. Un ritratto di madre straziante, commosso e ambiguo.

Shi
Corea del Sud 2010 (139′)
CANNES: premio per la miglior sceneggiatura

 – A dispetto dei meritati elogi tributati a Parasite, il miglior film coreano visto in sala nel 2019 è stato piuttosto Burning – L’amore brucia, di Lee Chang-dong, che rilegge un tiepido racconto breve del giapponese Haruki Murakami allentandone gli involontari schematismi e moltiplicandone le ambiguità e le tracce senza seguito – tra le molte, la più suggestiva è certo la presunta sparizione del micio della protagonista, che si lega, nella memoria di ogni appassionato, alla fuga del felino di Philip Marlow ne Il lungo addio (Robert Altman, 1973)

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Lady Vendetta

Accusata di aver rapito e ucciso un bambino, Geum-ja Lee esce di prigione dopo tredici anni e mezzo di detenzione. Il desiderio di vendetta verso il vero assassino, il suo amante Mr. Baek, diventerà il suo unico scopo di vita. Park tratteggia qui la sua ultima parabola morale, un percorso che attraversa tutte le fasi che conducono dal peccato al riscatto. Una storia violenta e disturbante per un film memorabile: tragico e sentimentale, poetico e a tratti fanciullesco, ironicamente crudele.

Sympathy For Lady Vengeance / Chinjeolhan geumjassi
Corea del Sud 2005 (112′)
VENEZIA 62° – Concorso

 – Chiusura della Trilogia della Vendetta e sintesi dell’estetismo nel cinema di Park, Lady Vendetta raggela i furiosi istinti dei precedenti Olboy e Mr Vendetta, virando al femminile la ricognizione operata dal regista intorno alla più atavica delle pulsioni umane. Lo sguardo di Geum-ja che, uscita dal carcere dopo tredici anni di ingiusta detenzione, si fissa in camera e ne oltrepassa l’obiettivo per congiungersi col nostro e intrappolarci all’istante nella rete di un principio morale che scopriremo essere assoluto, declina sin da subito le modalità di una rivalsa che muove da un calcolato schema.

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Madre

Una donna vive sola con l’unico figlio, un giovane timido e asociale che trascorre il tempo chiuso in casa. Quando nella loro città viene commesso un omicidio, la polizia arresta il figlio della donna solamente perché è privo di alibi. L’avvocato della difesa non è in grado di provarne l’innocenza così toccherà alla madre indagare per contro proprio per scagionare l’amato figlio, scoprendo, tra le sue abituali frequentazioni, un mondo nascosto di intrighi e violenze… Un film che scardina convenzioni e regole per reinventare la realtà nello sguardo e nelle azioni di una donna che soffre si dispera, immersa cuore profondo (e selvaggio) della società coreana. Un ritratto di madre straziante, commosso e ambiguo.

Madeo
Corea del Sud 2009 (128′)

 – Una donna avanza solitaria in un campo di grano. Si guarda attorno, come turbata, poi comincia a danzare al ritmo di una musica che le si insinua nella mente e che la magia del cinema le consente di condividere con noi. La ritroveremo, dopo oltre due ore di racconto, a danzare con grazia sbilenca su un autobus assieme ad altri viaggiatori, ma, sebbene stavolta la musica sia reale, la malinconica fissità di uno sguardo al limite della monomania ci farà temere che quel ballo inquieto possa d’un tratto tramutarsi in una sconnessa danza sul precipizio della follia..

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