In una cittadina del Montana, nel 1993, la giovane Cameron Post è sorpresa a baciarsi con una ragazza durante il ballo della scuola e viene spedita in un centro religioso, God’s Promise, in cui una terapia di riconversione dovrebbe “guarirla” dall’omosessualità. Insofferente alla disciplina e ai dubbi metodi del centro, Cameron stringe amicizia con altri ragazzi, finendo per creare una piccola e variopinta comunità capace di riaffermare con orgoglio la propria identità. Toni sfumati e precisione descrittiva dei personaggi per una critica senza esitazioni ad una mentalità oppressiva e ad una spiazzante dinamica “diseducativa”.
The Miseducation of Cameron Post
USA 2018 (90′)
SUNDANCE FESTIVAL: gran premio della giuria
Non può essere un caso se anche il cinema americano indipendente sta iniziando (o tornando, dopo gli anni d’oro dei Penn, degli Hasby, dei Mulligan) a confrontarsi con i grandi temi sociali che attraversano l’America. A diventare più direttamente e orgogliosamente politico. Non solo come possibile reazione a Trump e all’idea di società che veicola (due anni di presidenza più uno di campagna elettorale sono già un tempo possibile per accendere le prime, possibili «risposte» cinematografiche) ma come una più generale presa di distanza da una disaffezione (o da una rassegnazione) che aveva intorpidito le coscienze progressiste fin dall’era Obama. Tanto sicure di sé dà lasciar fin troppo spazio al risorgere di movimenti come – tra gli altri — il radicalismo evangelico, che dietro l’intransigenza religiosa veicola ben più intransigenti visioni politiche e sociali.
Una conferma viene dal fatto che su questo argomento sono stati prodotti due film quasi contemporaneamente, Boy Erased Joel Adgerton (che affronta il tema con un protagonista maschile, ma la cui possibile uscita italiana non è ancora annunciata) e La diseducazione di Cameron Post di Desiree Akhavan (dove la protagonista è femminile, vincitore del Gran Premio della Giuria all’ultimo Sundance Festival. Il film della trentaquattrenne regista americana di origini iraniane affida all’emergente Chloë Grace Moretz (anche in Suspiria di Guadagnino) il ruolo di Cameron, una adolescente scoperta dal suo «fidanzato» in inequivocabili effusioni con una compagna di studi. Così che alla zia Ruth (la ragazza ha perso entrambi i genitori) sembra normale affidarla al centro di «rieducazione» God’s Promise, il cui motto è il fin troppo esplicito «pray the gay away» e dove incontrerà altri ragazzi, maschi e femmine, coinvolti in un percorso che dovrebbe portarli a ritrovare la loro «autentica» sessualità.
Sceneggiato dalla regista e da Cecilia Frugiuele a partire dal romanzo omonimo di Emily M. Danforth (in uscita da Rizzoli), il film ci fa conoscere i giovani che dividono quella specie di prigione senza sbarre con Cameron – l’irriducibile Jane (Sasha Lane), l’atletica Erin (Emily Skeggs), la repressa Helen (Melanie Ehrlich), il ribelle Adam (Forrest Goodluck), il complessato Mark (Owen Campbell) – ognuno con alle spalle una situazione familiare che riflette le fragilità o le convenienze dell’America oggi (chi si vergogna di un figlio omosessuale, chi lo considera un rischio per la propria immagine pubblica, chi vuole cancellare un passato trasgressivo). A riportarli sulla retta via, c’è la subdola direttrice-psicologa Lydia Marsh (Jennifer Ehle) e il fratello Rick (John Gallagher jr.) che proprio lei ha «salvato» dall’omosessualità.
Ed è sui due «maestri» che il film punta soprattutto la sua attenzione. Su quel percorso di pressione psicologica che sfrutta e ingigantisce il senso di colpevolezza inculcato da una religiosità punitiva e castrante e che finisce inesorabilmente per scavare nel passato di ognuno alla ricerca di possibili colpevoli o capri espiatori. A ogni ospite viene consegnato il disegno di un iceberg: la parte emersa rappresenta la loro omosessualità ma come spiega mellifluo Rick il vero pericolo è rappresentato dalla parte sommersa, molto più grande. È quella cui ognuno deve sforzarsi di dare dei nomi e delle spiegazioni, finendo inevitabilmente per scaricare ogni tipo di colpa sui genitori e sugli amici (con una curiosa esasperazione dell’individualismo made in Usa!). Se da una parte il film si guarda bene dal mettere in discussione le scelte omosessuali dei giovani (che vengono rappresentate come assolutamente normali) e anzi finisce per ribadirle dando forma anche ai loro sogni erotici, dall’altra si impegna soprattutto a smascherare il percorso di colpevolizzazione messo in atto nel centro, il tentativo di dominio sulle loro menti….
Paolo Mereghetti – Il Corriere della sera
Diretto dalla regista di origina iraniana Desiree Akhavan, il film vede protagonista la Cameron del titolo che, dopo essere stata scoperta a baciarsi con una sua amica, viene mandata in un una comunità di rieducazione per peccatori: il rapporto con altri due “discepoli” sarà alla base della sua personale diseducazione. La regista adatta con Cecilia Fruguiele il romanzo di Emily Danforth e realizza una drammatica teen-comedy in cui più che il peso delle azioni conta quello delle etichette. Perché rileggendo il teen drama dei camping estivi – un po’ campeggi e un po’ collegi – nell’ottica del posizionamento sessuale (ma non solo: come il sesso omosessuale anche la droga è un peccato da raddrizzare), Akhavan realizza un film in cui il vero asse della riflessione è come ci si pone all’interno della comunità, dove siamo rispetto allo sguardo degli altri e come possiamo (dobbiamo) uniformarci a quello sguardo e a quelle attese. Il campo Discepolo di Dio non educa tanto al mantenimento della giusta via spirituale quanto alla sopportazione dello sguardo altrui, il giudizio implicito in quello sguardo ogni volta che si posa su di noi assieme alle etichette che comporta. Continuando così un percorso cominciato col suo film d’esordio, Appropriate Behavior, Akhavan continua a riflettere sul rapporto tra percorso individuale e collettivo attraverso gli strappi dolorosi di quel percorso: e in La diseducazione di Cameron Post lo fa cercando toni sfumati e la precisione descrittiva dei personaggi, rigettando la condanna o il sarcasmo manicheo verso l’istituzione che critica ma allo stesso tempo ponendosi il problema di chi giudica e chi è giudicato. Sotto la punta dell’iceberg – l’immagine metaforica alla base del film – c’è una resistenza di pensiero, azione e identità che passa dalla diversità (una ragazza lesbica, una afro-americana bisessuale e un nativo americano chiamato “Due spiriti” per l’ambivalenza della sua identità di genere). E che cerca una libertà che non è solo politica, ma è soprattutto umana.
Emanuele Rauco – cinematografo.it