Con un montaggio di materiali di archivio Loznitsa ricostruisce il processo, svoltosi nel 1930 a Mosca, che vedeva imputati di cospirazione contro il governo sovietico, di boicottaggio economico e di contatti segreti con governi stranieri, in particolare il primo ministro francese Poincaré, un gruppo di economisti e scienziati di alto livello appartenenti al cosiddetto fantomatico “Partito dell’industria”. Processo che si concluderà con la condanna a morte per la gran parte degli imputati.
The Trial – ПРОЦЕСС
Paesi Bassi 2018 – 2h 5′
documentario
VENEZIA – Un film sulla menzogna, “24 fotogrammi di bugie al secondo”, come lo definisce l’autore, parafrasando Godard. Perchè qui tutti mentono: gli avvocati e i giudici, ma anche gli imputati, che ammettono la loro colpevolezza, la folla muta che assiste al processo e che applaude alla lettura della sentenza e i manifestanti nelle vie della città che chiedono giustizia nei confronti dei traditori, ma soprattutto mentono le immagini.
Loznitsa si limita infatti ad assemblare, con gli adeguati tagli, riproducendone anche il sonoro, un materiale d’archivio originale, che doveva servire come propaganda. “Ho deciso di realizzare un film che fornisse allo spettatore la possibilità di trascorrere un paio d’ore nell’URSS del 1930: vedere e provare il momento in cui la macchina del terrore di Stato, creata da Stalin, veniva messa in azione.” Certo qui le immagini
parlano da sole, ma sono i pur limitatissimi interventi di montaggio del regista ucraino che contribuiscono ad arricchirne il senso.
Anzitutto la cornice: le prime inquadrature di una Mosca addormentata sotto una spessa coltre di neve, dove la vita sembra risvegliarsi a poco a poco e ripartire in tram, in slitta, sui calessi, a piedi sul ghiaccio: la storia prosegue inevitabile, inarrestabile, senza appello, e il commento finale, “necessario per affermare la verità giacchè è impossibile discernerla in qualsiasi altro momento”, in cui veniamo a conoscere l’esito delle sentenze e il destino degli accusati, ma soprattutto la falsità dell’operazione.
Ma è in particolare nel modo in cui Loznitsa monta il materiale d’archivio, che il film raggiunge il suo scopo, cioè quello di farci entrare dentro questa macchina mostruosa. Il regista, come ben sa chi conosce le altre sue opere, lavora sull’accumulo e sulla ripetitività. Alternando quattro punti di vista diversi, sulla corte, sugli imputati, sul pubblico e sui manifestanti e rimandandone ossessivamente le immagini, egli scruta, e noi con lui, instancabilmente un processo interno, cosicchè le immagini catturate, deportate rimangono per sempre, continuano a parlare, sottraendosi all’immensa distesa ghiacciata di tutto il materiale d’archivio di cui la cultura contemporanea dispone.
Nel momento in cui lo spettatore entra nel ritmo ripetitivo e opprimente del Processo, si ritrova a poco a poco sempre più coinvolto nel paradosso del dramma legale rappresentato, con le facce impassibili dei giudici, che ripetono per ciascun imputato le stesse accuse, con l’apatia rassegnata con cui le vittime si autodifendono recitando un copione già scritto di autoaccusa più che autodifesa e di abiura del proprio operato, con le facce degli spettatori nelle vesti di comparse da film e con gli slogan monocordi dei manifestanti. Emerge inevitabilmente a questo punto la trasparenza del suo essere una farsa al servizio dei media di allora, al servizio, oggi come allora, della conservazione del potere.
“La tragedia è vera ma la storia è un falso.” Il film offre un’inedita visione delle origini di un regime spietato, che fece dello slogan “La menzogna è verità” la sua realtà quotidiana.
Cristina Menegolli – MCmagazine 47