Australia 2018 – 2h 16′
VENEZIA – Accolto alla Mostra del Cinema di Venezia nella polemica, dove forse rimarrà dimenticato con due premi che a qualcuno sono suonati di circostanza, il nuovo film di Jennifer Kent rimaneggia generi – western e horror – e sottogeneri – il rape and revenge – offrendo una prospettiva e uno sguardo insoliti che meritano di essere approfonditi al di la dello “scandalo”, e anche proprio in virtù dei difetti che definiscono i tratti più particolari di questa pellicola.
La regista dell’apprezzato Babadook con The Nightingale si immerge nella natura selvaggia e aspra della Tasmania del primo Ottocento; lo sfondo è dunque popolato di coloni e soldati, immigrati e nativi, immortalati nello scontro con lo scenario inospitale di un pezzo di storia che rimane ancora colpevolmente sfocato e senza memoria. Uno spaesamento, quello dei protagonisti di quel passato, che si traduce sempre e
comunque in violenza, come anche la tragedia della giovane Clare, immigrata e detenuta irlandese, costretta a subire le viscide attenzioni di un ufficiale britannico per non essere processata e giustiziata; e quando lei cerca di ribellarsi l’uomo uccide la sua famiglia. La ragazza, spinta dal desiderio di vendetta, decide di dargli la caccia attraverso la foresta, facendosi accompagnare da una guida aborigena di nome Billy.
Sulla carta, quindi, l’incipit è quello un rape and revenge abbastanza canonico – anche se in costume – che tenderà però a perdere progressivamente i caratteri distintivi del genere inseguendo una traiettoria di sguardo insolita e particolare.
La forza di Babadook risiedeva proprio nel riuscire a esplorare i luoghi più cupi e disturbanti della mente umana, attraverso una reinterpretazione dei topos dell’horror e della fiaba oscura. Anche in The Nightingale il livello sensoriale è privilegiato dalla regia di Jennifer Kent, l’inusuale aspect ratio e l’uso di un sonoro claustrofobico riproducono la dimensione dell’horror e conducono lo spettatore fino agli incubi della protagonista e allo svelamento dell’abisso in cui si sta precipitando. Ma la scrittura e la caratterizzazione dei vari personaggi proseguono oltre: l’incapacità maldestra di Clare di compiere la propria vendetta insinua il dubbio sul senso di un tale gesto e le sue conseguenze, dall’altra parte la caricatura smisurata di ogni efferatezza compiuta dagli uomini deforma il realismo con cui il film si era presentato. E mentre tutti i personaggi si perdono in una natura che li sovrasta e li inganna, la messa in scena ribadisce la necessità di uno sguardo, e di conseguenza una voce, al femminile su l’orrore vissuto da una donna violentata e denigrata. L’esasperazione dei caratteri maschili in questo senso diventa una necessità: non è solo ingenuamente ridondante ciò a cui assistiamo, ma volutamente eccessivo, ripetuto e mostruoso perché è il sentimento femminile quello trattato, suo l’occhio che osserva, e sempre quello di una donna l’incerto e impacciato atto di vendetta; un gesto che naturalmente non le appartiene – contrariamente a quanto accade normalmente negli horror con protagoniste donne, in cui queste ultime reagiscono “da uomini”. E se la vendetta di Clare è senza soluzione, la rivalsa non può che avvenire facendosi eco di quella del popolo aborigeno. A questo punto il film, ampliando la propria prospettiva e cercando una risoluzione all’orrore nel rapporto tra Clare e Billy, ripiega su se stesso e perde, nella ripetizione, definitivamente forza e credibilità.
Ma, al di la dei difetti, rimane il fatto che il film durante giornate veneziane sia stato solo superficialmente chiacchierato; per noi invece la sua imperfezione è stato un interessante argomento di discussione e riflessione soprattutto per la schiettezza con cui condanna, oltre la violenza, la mancanza di memoria della storia.
Valentina Torresan – MCmagazine 47