Frankenstein

James Whale

Il professor Frankenstein lascia l’università per condurre più liberamente i suoi sconcertanti esperimenti di elettrobiologia: ricucendo pezzi di cadaveri riesce a dar vita a un essere sovrumano al quale però, a causa di un errore del proprio assistente, viene innestato un cervello criminale. Il mostro, feroce e pericoloso, uccide i guardiani che lo sorvegliano e si mette alla ricerca del giovane scienziato che gli ha dato la vita. Frankenstein si è ritirato nel villaggio nativo per sposare la propria fidanzata ed è qui che, segnalata la presenza del mostro, si organizza una caccia spietata… Appartenente alla corrente espressionista, è una delle opere più importanti del genere horror. Pur ispirandosi all’opera di Shelley, in realtà riprende principalmente un adattamento teatrale del 1823 (Presumption – The Fate of Frankenstein di Richard Brinsley Peake): alcuni punti del romanzo sono modificati, come l’ambientazione storica e alcune caratteristiche del mostro, e viene ampliata la storia per sottolinearne i contenuti scientifici e sociali. Un film che ha inaugurato una mitologia e uno stile che hanno infleunzato tutte le pellicole dell’orrore: l’immagine della creatura entra qui nell’immaginario collettivo e tutte le versioni successive del mostro si rifanno in fondo a questa.

b/n – USA 1931 – 70′


In una notte di tempesta il dottor Henry Frankenstein infonde vita al corpo umano che egli ha riscostruito in laboratorio assemblando diverse parti di cadaveri e trapiantandovi un cervello trafugato dall’università di Goldstadt. Il folle esperimento riesce: la creatura investita da potenti scariche elettriche è viva, ma invece di essere riconoscente al suo creatore si rivela ottusa e violenta. Responsabile dell’insuccesso è Fritz, il servitore storpio dello scienziato, che invece di procuragli il cervello di un uomo di intelligenza superiore gli ha fornito, per un banale contrattempo, quello di un criminale. Inorridito, Frankenstein tenta di tenere prigioniera la creatura, ma questa resa furiosa dal sadico Fritz fugge dal laboratorio. Dopo aver accolto in casa la giovane moglie Elizabeth il dottore ha notizia della presenza di un mostro sanguinario che si aggira nella regione seminando morte e terrore. Quando la creatura minaccia la giovane sposa, Frankenstein decide di affrontarlo e seguendone le tracce lo raggiunge all’interno di un mulino abbandonato. Tra i due si accende una lotta furibonda: il mostro ferisce l’uomo che precipita da una finestra, ma la folla di paesani sopraggiunta nel frattempo incendia il mulino e la creatura viene distrutta dalle fiamme. Nella storia del cinema dell’orrore Frankenstein segna l’inizio di una nuova fase dopo quella dei capolavori tedeschi dell’epoca del muto: una fase nella quale la continuità tematica con la tradizione gotica (i migliori lavori di questo periodo sono adattamenti di opere letterarie) è filtrata attraverso le suggestioni di una scienza nuova e rivoluzionaria. In questo senso, il film di Whale, se da un lato consacra la nascita del contemporaneo film dell’orrore, dall’altro legittima il cammino verso la fantascienza cinematografica congetturando le infinite possibilità della medicina, il meraviglioso potere dell’elettricità, l’asservimento della natura all’inesauribile forza del pensiero umano. Il bellissimo laboratorio che il film ci presenta è esso stesso emblematica sintesi di spirito vecchio e di mentalità nuova: quasi costruito in un ambiente da sala di tortura di un castello medievale, denso delle ombre di misteriose strumentazioni da alchimista, ma illuminato dai riflessi metallici di macchine avveniristiche, valvole e trasformatori. Quando Colin Clive-Frankenstein esclama (in una celebre battuta sottoposta ad altrettanto celebre censura) di sapere cosa significa essere un dio, lo fa non in nome della magia ma della scienza: il “senso del meraviglioso”, pilastro della letteratura romantica e fantastica, è adesso frutto del meticoloso lavoro, dello studio, della sperimentazione. L’immagine stessa della creatura rappresenta qualcosa di assolutamente nuovo: il mostro di Karloff e di Pierce è un gigante assemblato come una macchina, dotato di bulloni d’acciaio che trapassano il collo, rigido nel portamento come un automa, riflesso di un gusto estetico che rielabora la lezione del futurismo e del cubismo. Il successo del film si fonda su una fortunata combinazione di talenti e di circostanze. Per il ruolo dell’ardimentoso scienziato si pensò prima che a Colin Clive a Leslie Howard. Le bobine di prova – andate perdute – furono girate da Robert Flowrey il quale, sostituito poi da James Whale, aprì un vertenza obbligando Carl Leammle ad inserire il suo nome nei credits delle copie distribuite in America. Il mostro, nei provini, era interpretato da Bela Lugosi che, in fine, rinunciò al ruolo contrario ad una parte senza dialoghi e temendo di essere irriconoscibile sotto un elaborato trucco pensato forse sullo stile di Golem. Boris Karloff, al contrario, accettò di sottoporsi alle mani di Jack Pierce per il faticoso trucco di tre ore giornaliere – suggerendo anche intelligenti modifiche (di Karloff sarebbe l’idea delle pesanti palpebre cadaveriche) – e seppe scaldare il personaggio con commoventi tocchi di umanità assimilandolo a tragica vittima dell’odio e dell’incomprensione umana. L’unità drammatica della storia (in parte incrinata dal caricaturale ritratto di Fritz – l’attore Dwight Frye -, dal convenzionale intermezzo sentimentale e dalla bozzettistica presenza della folla inferocita) è sottolineata dalla cupa fotografia dell’esperto operatore Arthur Edeson che sa trarre emozioni dalle ombre inquadrate dietro lo steccato del cimitero nella scena iniziale (…per amplificare il rumore della terra che cade nella bara fu sistemato nel suo interno un microfono), o dall’esplosione luminosa che celebra la nascita della creatura (…un probabile riferimento alla nascita del robot di Metropolis?) o dal turbinio del fuoco che ne accompagna la morte. Ispirato al romanzo di Mary W. Shelley, il film riadatta una precedente riduzione teatrale nella quale lo scienziato si chiamava, appunto, Henry Frankenstein. Gli esterni del villaggio sono gli stessi utilizzati per All’Ovest niente di nuovo di Pabst, altro film fotografato da Edeson. Frankenstein fu presentato per la prima volta al pubblico di New York il 4 novembre 1931 al Mayfair Theatre. Premiato dal pubblico, sconcertò la critica tradizionalista e costituì il bersaglio preferito dalla censura del tempo: nonostante l’imposizione del taglio della sequenza in cui il mostro provoca la morte di una bambina in riva a un lago, il film sollevò le proteste di numerosi ambienti cattolici e conservatori tanto da indurre la Universal a far precedere il racconto da una breve introduzione sdrammatizzante (alla cui stesura sembra abbia collaborato anche John Huston) recitata da Edward Van Sloan.

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“Ti chiesi io, Creatore, dall’argilla di crearmi uomo, ti chiesi io dall’oscurità di promuovermi”: questa è solo una delle frasi che escono dall’inanimata voce della creatura di Frankenstein, una “cosa” plasmata dall’unione di diverse parti anatomiche di uomini deceduti nel breve periodo. Il riferimento è naturalmente letterario, a quel racconto nato dalla mano della giovane Mary Shelley fra il 1816 ed il 1817, dopo un gioco di inventa storie su fantasmi durante un soggiorno estivo, ma piovoso, in Svizzera. Una frase fondamentale che racchiude in se diverse chiavi interpretative di un racconto che tanto ha ispirato teatro e cinema.
Già nel 1823 sono numerose le rappresentazioni teatrali ispirate al racconto, come quella di Richard Peake Presumption, o quella del 1927 di Peggy Webling, capace di persuadere la Universal alla realizzazione di una versione cinematografica, effettuata anche grazie al successo del Dracula con Bela Lugosi. Ad una prima parte della produzione venne coinvolto il regista Robert Florey (The Coconuts), del quale rimarrà nella versione definitiva diretta da James Whale l’idea del mulino in fiamme, elemento inesistente, come molti altri, nella versione letterale. Ed ecco così immergerci nella storia del dottor Frankenstein, versione primordiale dello scienziato pazzo, accecato dalla volontà di creare la vita a propria somiglianza senza tener conto di Dio. Quando la creatura prende vita grazie alla luce primordiale scoperta dal dottor Frankenstein (Colin Clive), questo esalta la sua pazzia in un spasmodico urlo divino censurato nella versione del 1931, accompagnata da un prologo di avvertimento (per evitare le proteste delle associazioni religiose e ben pensanti del periodo) dove Edward Van Sloan prende le sembianze dell’anonimo autore della prima edizione, per indossare poco dopo le sembianze del dottor Waldman, parente stretto del Van Helsing di vampiresca memoria. Una panoramica sui volti distrutti di persone che danno l’ultimo saluto ad un parente scomparso termina sul volto duro e terrorizzante della morte (inizialmente si era realizzata una sequenza in campo lungo che verrà inserita nel sequel La moglie di Frankenstein), che si sovrappone al primo piano asfissiante di Fritz (Dwight Frye), aiutante ingobbito alle spalle del quale sorge la pazzia della scienza. Un campo lungo su un cimitero espressionista mostra le figure dell’aiutante e del dottore entrare in campo tra la croce e la morte, la prima simbolo dell’impotenza di Dio davanti ad una scienza avanguardista, la seconda infangata dalla capacità dell’uomo di superare anche la morte. In queste prime sequenze ecco che vengo inseriti elementi innovativi, al periodo di per se terrorizzanti, come il tonfo della terra sulla bara o l’impiccato non adatto all’esperimento. Prima di soffermarci sulla figura della creatura, sulla sua non nascita ed evoluzione, bisogna soffermarci su una sequenza insolita del film, il dialogo tra Elizabeth (Mae Clarke) la fidanzata del dottore e l’amico fidato Victor Mortiz (John Boles). Per animare una sequenza piatta (qui viene manifestata la preoccupazione verso Frankenstein alleviata dall’evidente amore tra i due personaggi) il regista la definisce in modo insolito, introducendo le figure chiamate in causa da quattro primi piani consecutivi, prima di tornare sul campo lungo di ambientazione.

Dall’amore soffocato da un impegno pre-matrimoniale alla nascita della creatura; imponente figura dalla fronte alta, un viso scavato, l’incapacità di parlare e due occhi eternamente spenti. Nei titoli di testa alla voce The Monster è possibile vedere solo un punto interrogativo, un espediente molto in voga al periodo, che in fine assume le sembianze di un Boris Karloff pesantemente truccato dal genio di Pierce Jack, consacrato dall’interpretazione all’olimpo del cinema. L’interpretazione di Karloff, senza eguali, riesce ad esprimere pienamente la diversa interpretazione della figura del Prometeo evidente nel libro della Shelley: quello greco, titano ribelle che ruba il fuoco dall’Olimpo per salvare l’umanità, da cui viene tratto il tema della ribellione contro il destino, e quello romano, rielaborazione della legenda di Ovidio (Metamorfosi) dove Prometeo plasma gli umani dalla creta. Numerose possono essere qui le sequenze da richiamare (la ribellione al padrone, l’uccisione di Fritz, l’origine del suo male nel cervello abnormale rubato nella stessa università del Faust di Marlowe, il gioco tragedia con la bambina), ma una in particolare è dimostrazione del talento di Karloff e esaltazione della figura inanimata della creatura: la vista del sole causa il sorgere di una scoperta vitale da parte del mostro che si innalza verticalmente verso essa, magari con la volontà di afferrarla, diventando un tutto con la scenografia verticale di Hermann Rosse, che pare essere realizzata per esaltarsi in questo breve momento.
Inquadrature sempre piene ed un abile gioco di luci e ombre di chiara ispirazione espressionista, rendono evidenti e terrorizzanti un insieme di elementi ideati proprio per il film che ha creato il culto di Frankenstein ma inesistenti nell’opera originaria: dai tratti fisici del mostro ai macchinari inventati per creare la vita, infatti nelle pagine del libro la giovane autrice non parla di lampi, tuoni e metalli, ma ambiguamente lascia intendere alla presenza di un elemento di magia nera o addirittura ad un elisir, insomma qualcosa più vicino all’alchimia che alla scienza, senza così nulla togliere all’intento prometeico del personaggio Frankenstein simbolo della volontà dell’uomo di sostituirsi a tutto, ma destinato solo alla pazzia e alla morte.

Gabriele Perrone – movieplayer

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