Lazzaro felice

Alice Rohrwacher

L’apologo dolce amaro del giovane Lazzaro, anima buona e pura che canta alla luna e parla coi lupi. Dapprima in una enclave fuori dal mondo di contadini coltivatori di tabacco sfruttati da una spietata megera, la marchesa Alfonsina Della Luna, in una Italia centrale dei primi anni 80 (ma sembra di essere un secolo prima, tipo Albero degli zoccoli di Olmi!). Poi in una comunità di diseredati dei giorni nostri, da qualche parte tra Milano e Torino. Ovunque lo sguardo sereno e complice di Alice Rohrwacher, da sempre dalla parte degli ultimi. Film scombinato, bizzarro, irrisolto, ma affascinante, da vedere!


Italia 2018 – 2h 10′

CANNES 2018 – Premio per la sceneggiatura (ex-aequo)

 CANNES – Beniamina del festival, che la aveva tenuta a battesimo nel 2009 con Corpo celeste e poi premiata (un po’ generosamente forse) nel 2014 con Le meraviglie, Alice Rohrwacher torna quest’anno con Lazzaro felice confermando le sue doti autoriali ma anche mancanze e difetti, dovuti quasi ad un eccesso di ispirazione.


Il film è nettamente diviso in due parti; nella prima siamo in una tenuta agricola detta l’Inviolata, dove alcune decine di famiglie contadine menano una vita grama, tenute in una condizione di semischiavitù dalla crudele proprietaria Alfonsina e dal suo factotum Antonio. In effetti, sembra di essere non tanto nella campagna bergamasca di una volta quanto addirittura tra i servi della gleba di un Tolstoi o di un Turgenev: letti di paglia, poco cibo in cambio del raccolto, niente luce elettrica (“tanto voi avete la luna”), addirittura il divieto di allontanarsi dalla proprietà. Certo non può essere sfuggito alla regista che una tale comunità (nel 1980, come testimoniano la presenza dei primi telefonini e l’uso della lira) è assolutamente inconcepibile e un po’ respingente, ma tanto è, trattasi di “licenza poetica” e serve a farci entrare in un mondo magico e fiabesco, al cui centro c’è il protagonista, Lazzaro.
Lazzaro (magnificamente interpretato dall’esordiente Adriano Tardiolo), giovane apparentemente senza genitori, è un’anima candida, un puro di cuore sempre disponibile e di cui tutti si approfittano destinandogli i lavori più ingrati, ma lui tutto accetta e a tutti risponde con un sorriso…
L’amicizia con Tancredi, figlio viziato e ribelle della marchesa, è (o avrebbe potuto essere) uno dei punti di forza del film (cfr. i ragazzi Olmo e Alfredo in Novecento di Bertolucci); Lazzaro, nella sua innocenza, vi si butta, illudendosi di essere per la prima volta considerato e forse amato… La svolta si ha quando il nosro cade (metaforicamente?) in un dirupo. Muore?

Nella seconda parte del film Lazzaro si risveglia (risorge?) accanto a un lupo che, forse sentendo l’odore di un “uomo buono ” non lo sbrana ma lo lecca amorevolmente. E lui, uguale a se stesso, giovane come 20 anni prima, si mette alla ricerca del suo mondo, della sua vita precedente. Ma nulla è più come prima… Solo Lazzaro, come succede ai santi (o ai fantasmi?), è rimasto incorrotto: tenterà ancora di fare il bene degli altri, ma con risultati fatali… Il pensiero va a Miracolo a Milano, ma qui senza purezza né speranza. Nella scena finale, il lupo si aggira per la città a cercarlo…
Certo, alcuni passaggi sono un po’ meccanici, tirati via: la città popolata di extracomunitari pronti a tutto pur di trovare un malpagato lavoro, la scena finale della banca sanguisuga, strumentale e banalizzante. E tuttavia, come già nei suoi film precedenti, bisogna riconoscere ad Alice Rohrwacher il coraggio della sua visione umanista del mondo. Non chiedetele coerenza: lei pensa multitasking, abbonda in citazioni e riferimenti e le butta tutte sul piatto, con un risultato (a dispetto del premio per la sceneggiatura assegnato) non sempre coerente. Il rigore, l’opera compiuta arriverà.

Giovannni Martini – MCmagazine 46

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