Un teatro di Atene ai nostri giorni. In scena si sta rappresentando l’Orestea di Eschilo in un adattamento postmoderno. All’improvviso, in seguito a un breve blackout, un gruppo di giovani in abiti scuri ed armati di pistole sale sul palco invitando chi lo desidera a raggiungerli per prendere il posto degli attori. La recita prosegue ma ora le dinamiche sono profondamente mutate… Realtà o finzione? Il teatro, la tragedia, possono ancora salvarci? Interruption non è solo un grandissimo lavoro metafilmico ma è una riflessione sulle potenzialità del cinema, sulla sua capacità di farsi contemplare e di fondersi con la vita dello spettatore.
Grecia/Francia/Croazia 2015 – 1h 50′
versione originale sottotitolata
In un teatro di Atene, ai giorni nostri, un gruppo armato fa irruzione durante l’inizio di uno spettacolo ispirato all’Orestea di Eschilo. Le luci del palcoscenico, anziché accendersi, si spengono, ma gli spettatori in sala non si staccano dalle proprie poltrone. Alexandros Vardaxoglou, il leader del gruppo che si autodefinisce il “Coro”, dà inizio a una rappresentazione speciale, invitando chi vuole a unirsi a lui per dare vita a una recita “a soggetto”.
“Quello che succede qui è realtà o finzione?” è la domanda che Alexandros pone a Clelia, una delle inconsapevoli spettatrici salite sul palco. Ed è la questione chiave di tutta l’opera d’esordio di Yorgos Zois, il talentuoso giovane regista greco che realizza un film ambizioso, in cui l’eterno confronto tra arte e vita, tra finzione e realtà, tra rappresentazione e verità diventa il punto di partenza per un discorso che partendo dal Mito greco, dall’epica, arriva a lambire i temi più attuali e politici del terrorismo e della comunicazione contemporanea.
Il film rievoca l’attacco terroristico al Teatro Dubrovka di Mosca del 2002, dilatando all’infinito i primi attimi in cui gli spettatori non si resero conto di cosa stava succedendo, credendo che fosse tutto parte della rappresentazione.
Il film procede con un ritmo ipnotico, in cui momenti più incalzanti vengono spezzati da scene spiazzanti, come quella quasi onirica del pasto offerto nell’intervallo. La tensione incalzante genera inquietudine ma non esplode mai, piuttosto implode. Il sangue che scorre non è mai quello del pubblico, sono gli attori del gruppo a immolarsi per portare avanti quella che sembra essere un’estrema difesa del compito di catarsi e purificazione dell’arte. Il teatro, la tragedia, possono ancora salvarci? Yorgos Zois non lo sa, ma le reazioni del pubblico all’assurda rappresentazione a cui assiste lasciano pensare a una massa passiva, obbediente eppure mai sazia di sangue e grottesco. Per il regista Interruption è un film sull’atto del vedere. Ci si può spingere anche all’estremo sacrificio, ma forse non esiste deus ex machina né liberazione possibile.
L’iconografia è ricchissima, pagana e cristiana, mentre i ruoli del teatro classico greco si incarnano nei loro interpreti attuali, che ne sono allo stesso tempo prosecuzione infinita e parodia raccapricciante. Il mito di Oreste si proietta nell’oggi, con la prima sentenza della storia pronunciata dal popolo, quella che decide l’innocenza di Oreste assassino della madre Clitennestra, che mette al centro della riflessione di Zois il pubblico e il suo ruolo sempre più indistinto eppure fondamentale nel magma della società contemporanea virtuale.
Ma c’è una risposta a tutto questo? La fine del film non lo chiarisce, ma la catarsi, quel potere salvifico che è proprio dell’arte, si compie nel modo più violento e allo stesso tempo coinvolgente. È però l’epilogo che probabilmente regala un senso ancora più vivo e autentico a tutta la riflessione del film, il momento in cui la vita e l’arte riescono a incontrarsi e fondersi, un attimo in cui il significante dell’immagine sposa infine un suo significato, il più semplice. Nella danza alienante eppure dolcissima che precede i titoli di coda, forse, troviamo la risposta al mistero di Alexandros e della sua compagna del Coro. Il mistero più doloroso, la risposta più bella.
Michelangelo Iuliano – cinematografo.it
…Questo film è la prova di come il cinema sappia ancora farsi arte, liberandosi dalle catene della costrizione industriale, svincolandosi dalla palude del divertimento e dal fango dell’adrenalina, proponendo un rapporto dinamico con lo spettatore, agente attivo della visione, in grado di trasformare soggettivamente il tempo cinematografico, sganciandolo dalla sterilità dell’intentio auctoris e sottraendolo dal linguaggio altrui. In questi termini la visione diviene l’esperire una parte di sé che vive nel film, che si colora di infinite interpretazioni e permette all’arte di mettere in opera la verità, in un lungo processo di luci e ombre, di svelamento e nascondimento.
Veniamo alla trama della pellicola: in un teatro di Atene va in scena l’adattamento postmoderno dell’Orestea, una trilogia formata dalle tragedie Agamennone, Le Coefore e Le Eumenidi scritte da Eschilo. Dopo che il pubblico ha preso posto, le luci del palcoscenico si spengono e un gruppo di giovani, armati e vestiti di nero, sale sul palco invitando gli spettatori a partecipare alla rappresentazione teatrale. Prendendo spunto dagli eventi accaduti nel teatro di Dubrovka a Mosca – dove un gruppo di militari ceceni fu scambiato dal pubblico come parte integrante della messa in scena – il regista indaga il rapporto tra arte, verità e realtà attraverso la lenta dissoluzione della rassicurante barriera diegetica, per cui lo spettatore non è più in grado di capire quali sono gli attori, chi sta recitando, se l’occupazione militare è una finzione dentro la finzione, oppure se è un qualcosa di concreto e pericoloso.
Per accentuare ancor di più questo disagio alienante, il regista decide di inquadrare spesso la platea con un campo totale, in modo tale che la sala e gli osservatori della pièce diventino parte integrante della sala cinematografica, quasi un suo organico prolungamento; in questo modo non c’è più nessuna distinzione tra realtà e rappresentazione, lo spazio del racconto si trasforma nella vita dell’osservatore e viceversa, in uno scambio osmotico di emozioni, sensazioni ed eventi. Si instaura così un rapporto di co-appartenenza tra gli attori reali e il pubblico interno/esterno alla pellicola, in un tempo cronologico che non esaurisce l’essenza della visione ma che la enfatizza e getta in un tempo ontologico, nel quale l’arte coincide con ognuno dei livelli di realtà rappresentati. In particolare ne possiamo rintracciare tre: il primo vede gli attori-persone che impersonano gli attori della tragedia; il secondo è quello degli spettatori-teatrali che salgono sul palco e recitano la tragedia; il terzo riguarda gli spettatori-persone intenti a guardare la pellicola. Questo tempo ontologico si dilata a tal punto da riempire fisicamente sia lo spazio-tempo diegetico della rappresentazione – come testimoniato da poche e incredibili inquadrature (in cui, staccando dalla scena principale, Zois decide di far sentire solo il suono e la musica di ciò che sta avvenendo sul palco nella hall del teatro oppure nei bagni) – sia lo spazio-tempo fisico della proiezione.
In questo modo la vita diviene arte e né gli spettatori del teatro né quelli della sala cinematografica si rendono conto di ciò che sta accadendo sul palco. Si tratta di realtà o finzione? Oppure è una finzione nella finzione? I dubbi rimangono e con l’avanzare del tempo capiamo che Interruption non è solo un grandissimo lavoro metafilmico («Quello che accade qui è realtà o finzione?» è una delle domande che vengono poste agli spettatori chiamati a recitare) ma è una riflessione sulle potenzialità del cinema, sulla sua capacità di farsi contemplare e di fondersi con la vita dello spettatore. A differenza delle antiche tragedie attiche, in cui il pubblico aspettava con trepidazione l’avvento della catarsi, in grado di purificare il piacere provato dal vedere che Oreste uccide la madre, nel lavoro del greco Yorgos Zois allo spettatore non è concessa nessuna liberazione, nessuna purificazione. Ciò che abbiamo visto, dopotutto, non è un ammaliante processo di mimesi, ma il dischiudersi della realtà grazie all’atto cinematografico che ci fa comprendere l’arte come (per usare le parole di un grande poeta francese) «la creazione di una magia suggestiva che accoglie insieme l’oggetto e il soggetto», il rappresentato e il rappresentabile, in un giogo eterno e inesauribile.
Alessandro Lanfranchi – cineforum.it