Quando degli ufficiali dell’esercito si presentano alla porta di casa e annunciano la morte del figlio Jonathan, la vita di Michael e Dafna viene sconvolta. Tutto appare incredibile e forse lo è: qualcosa di terribile è accaduto nell’isolato posto di guardia in cui il ragazzo prestava servizio sotto le armi – ma cosa, come, quando e perché? Tre atti, fra squarci di rabbia e lampi di ironia surreale, in cui la verità si avvicina beffarda a passo di danza ma il destino conserva per ultimo il suo scherzo più crudele. Maoz racconta con un rigore formale sbalorditivo, tre storie che sono un unicum, uno squardo sull’assurdità totale della guerra, dove, nello strazio del dolore, vita e morte si fronteggiano beffarde.
VENEZIA: LEONE D’ARGENTO – GRAN PREMIO DELLA GIURIA
Israele/Ger/Fra/Svizzera 2017 – 1h 53′
Due film: un Leone d’oro e un Gran Premio della Giuria. Entrambi a Venezia. A distanza di 8 anni. Di certo non uno Stakanov della regia, di sicuro un autore che racconta, al di là di un rigore formale sbalorditivo, storie che ci catapultano dentro la guerra, esplorandola più in modo esistenziale che bellico, un armamentario che fissa la paura e la morte in una sorta di teatro dell’assurdo. In questo Foxtrot, con l’aggiunta nella distribuzione italiana della solita, inutile coda (La danza del destino), è l’ideale continuazione di Lebanon (2009), perché l’israeliano Samuel Maoz, non solo amplifica i temi guerreschi attraverso una rappresentazione claustrofobica (stavolta perfino ribaltata in un opposto sorprendente), ma consegna la tragedia agitando come sempre un nemico invisibile.
Se in Lebanon i soldati israeliani erano prigionieri nella asfissiante carcassa di un carro armato, ora lo sono altrettanto in una terra deserta nel controllo di un surreale posto di blocco. Tra questi il soldato Jonathan, che all’inizio del film viene comunicato alla sua famiglia come “caduto nell’adempimento del proprio dovere”, ma che si rivela ben presto una deprecabile svista dell’apparato militare, che non sa nemmeno riconoscere i propri soldati.
Diviso in tre blocchi (secondo lo schema del ballo del titolo, che riporta tutto al punto di partenza, con l’ultimo quarto passo), Foxtrot diventa una potente, implacabile, geometrica riflessione sull’assurdità della vita, della guerra e della morte, che nella sua gelida precisione scandaglia, senza alibi alcuno, il senso di colpa di tutti, specie di un Paese che sta precipitando (la metafora del barattolo, all’interno del container nel deserto, è evidente), senza essere in grado di cambiare la rotta.
Maoz eccede probabilmente nell’ingabbiare il racconto in un’estetica troppo autocompiaciuta, ma va da sé che le scelte sono sempre coerenti, nonostante gli stessi personaggi rimangano imprigionati alla storia a cui sono destinati: è una critica che molti avevano già evidenziato ai tempi di Lebanon, alla quale va aggiunta una forte resistenza ideologica, anche se stavolta Maoz espone soprattutto Israele a un giudizio tutt’altro che lusinghiero. In realtà il regista è spietato nel ribaltare paradossalmente le reazioni ai fatti (come un popolo incapace di comprendere la realtà) e nella seconda frazione mette in scena un teatrino quasi beckettiano in un’atmosfera da deserto dei tartari, con un finale sarcastico, perché la morte arriva sempre quando meno te l’aspetti, anche nel modo. E se la scena d’apertura è fortemente scioccante, l’intermezzo animato spiega il background della famiglia, prima di una formidabile ellissi, con la quale si apre l’ultimo atto.
Adriano De Grandis – Il Gazzettino
La guerra non si combatte solo sul campo di battaglia, ma anche tra le mura casalinghe, dove ogni genitore attende angosciato il ritorno del figlio. La morte è una presenza costante in Foxtrot, una tragedia in tre atti che unisce stili diversi in un tripudio di musiche e colori. Il regista Samuel Maoz gira un film coraggioso, intimista, che non ha paura di attaccare una società fondata sulla violenza. Lui è stato un carrista nel 1982, durante l’invasione del Libano da parte di Israele, come ci aveva raccontato con Lebanon. Questa esperienza di gioventù, l’ha reso un militante che usa la macchina da presa per denunciare l’assurdità di ogni conflitto.
In Lebanon (Leone d’Oro a Venezia nel 2009), i suoi protagonisti erano rinchiusi in un carro armato “infernale”. Era la culla di ogni incubo, una prigione claustrofobica che offriva uno spettacolo in prima fila per il massacro successivo. Questa volta i soldati vivono in un mondo surreale, in un posto di blocco ai confini della realtà. Dormono in un container che ogni giorno sprofonda nel fango di qualche centimetro in più, e quasi non comunicano tra loro, alienati dalle mansioni quotidiane. Una lattina di birra può trasformarsi nel pretesto per scatenare l’impossibile, e spesso l’unico ad attraversare il checkpoint è un cammello, l’allegoria di un destino che attende beffardo all’entrata. La prima parte affronta il dolore, la tenebra che avvolge una famiglia dopo aver scoperto che il loro Jonathan non c’è più. Michael, un architetto israeliano di successo, è disperato. La sua bella casa non lo lascia respirare e la macchina da presa lo stritola in lunghi primi piani. La moglie Dafne quasi non capisce, è confusa: perché Israele, la sua patria, le ha inflitto questa pena? Che senso ha combattere? Le nostre esistenze sono come il foxtrot, ci spiega il protagonista e, nonostante tutti gli sforzi, si torna sempre al punto di partenza. Poi lo stile cambia e l’umorismo nero sale in cattedra. In un checkpoint in mezzo al deserto si canta, si balla, e si narrano le bravate di gioventù. Maoz sembra innamorarsi dell’immagine e alcune sequenze potrebbero avere una punta di artificiosità, ma non rappresentano virtuosismi senza un fine. Sono la caricatura di una mattanza paradossale, di un’istituzione che mette i giovani dietro a una mitragliatrice senza spiegare il perché. Foxtrot ha il pregio di osare, di spingersi oltre il limite per scommettere su generi diversi e far discutere. Tutti aspettano qualcosa che non arriverà mai, a cavallo tra i lavori di Brecht e il teatro di Beckett. E l’unica certezza è che il destino verrà a bussare alla nostra porta, senza poter sfuggire all’inevitabile. La speranza, con un briciolo di ottimismo, fa capolino nel terzo atto, dove le risate intelligenti lasciano il palco alla forza delle emozioni. Il dramma da camera che soffocava i protagonisti nelle prime sequenze lascia entrare un po’ d’aria. E Foxtrot respira, è pieno di vita, anche nel raccontare il dramma di questo cupo presente.
Gian Luca Pisacane – cinematografo.it