L’uomo di argilla

Anaïs Tellenne

Raphaël, un uomo con un occhio solo, è il custode di una villa in cui non vive più nessuno. Prossimo ai sessant’anni, vive con sua madre in una piccola casa situata all’ingresso del parco della maestosa dimora. Tra la caccia alle talpe, la pratica con la cornamusa e i giri occasionali nel furgone Kangoo della postina, i giorni si assomigliano tutti. Ma una notte tempestosa Garance, l’erede della tenuta, ritorna nella dimora di famiglia e niente sarà più come prima.

L’homme d’argile
Francia/Belgio 2023 (94′)

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     “Mi ispiri come un paesaggio mutevole e irregolare, un canyon: imprevedibile e impreciso”. Come questo frammento di dialogo, L’uomo di argilla, primo lungometraggio della regista francese Anaïs Tellenne, presentato nel programma Orizzonti Extra dell’80ma Mostra di Venezia, è un’opera che sfugge alle definizioni e agli stili abituali del cinema contemporaneo, pur senza cadere in una forzata originalità. Il tema del film, suggestivo e sfuggente al tempo stesso, viene esplorato serenamente con un pizzico di mistero, un accenno di ritratto sociale e soprattutto un incontro singolarmente romantico tra un uomo del popolo dal fisico ciclopico che lo distingue dal resto del mondo e un’artista che “odia sentirsi osservata e giudicata”. Custode, giardiniere e tuttofare di una casa padronale isolata nella foresta, disabitata da tempo, dove lui e la madre (Mireille Pitot) vivono in una dependance, il 58enne Raphaël (Raphaël Thiéry) non ha praticamente alcun contatto con il mondo esterno, a parte le prove di cornamusa con il gruppo Terra Gallica e le scappatelle nel bosco con la postina (Marie-Christine Orry). Va detto che la sua sagoma massiccia e con un occhio solo è più inquietante che altro. Ma l’arrivo, in piena tempesta e senza bagagli, di Garance (Emmanuelle Devos), la liberissima e solitaria padrona di casa (“Vado dove voglio e torno quando voglio”), che è anche un’artista contemporanea soprannominata “La Signora Blu”, famosa tanto per le sue performance che per il fatto di tatuarsi il corpo con tagli da macellaio, stravolge la vita di Raphaël e, con il tempo, anche la sua percezione di sé.

Infatti, mentre tiene d’occhio la sua strana vicina, il nostro protagonista si rende presto conto che Garance lo ha scelto come modello per le sue statue di argilla. Ma non è altro che un Golem nelle mani di questa artista, o può osare sperare di più? “Tutto è vita, tutto è arte”. Nell’affrontare questa storia, che mette in discussione la normalità della condizione umana e l’influenza che le opinioni altrui hanno su di noi, la regista (che ha scritto anche la sceneggiatura) opera su un registro relativamente insolito, mescolando vagamente la fiaba con un realismo molto concreto e offrendo un’atmosfera e un ritmo molto personali. È una prospettiva rischiosa ma proficua per questo film molto coinvolgente, che deve molto ai suoi due carismatici interpreti principali e che annuncia l’emergere di un regista con una voce propria.

Fabien Lemercier – cineuropa.org

   Non c’è niente di più oscuro della fiaba. Ma anche di catartico, di edificante – letterale: che costruisce qualcosa -, a suo modo di luminoso. E il gesto di costruire è fondativo de L’uomo di argilla, esordio della regista francese Anaïs Tellenne (…) L’archetipo della Bella e la Bestia suona come riferimento immediato, certo, ma la situazione si fa più complessa. Raphaël infatti non è mai stato visto, è stato solo guardato, sminuito per prima dalla mamma a causa della sua presunta ripugnanza, che però è solo teorica allo sguardo dell’artista per cui ciò che è “brutto” diventa interessante. “Sono un paesaggio”, ripete l’uomo dopo le prime sessioni. Ed è vero: nella straordinaria fisicità dell’attore risiede una vera e propria cartografia, che il film rivela lentamente, con una spogliazione progressiva che lo lascerà nudo e infine ricoperto d’argilla in una paradossale coincidenza tra modello e opera. Ma cosa resta dell’ispirazione, del corpo a cui l’artista guarda, una volta che l’opera è conclusa? Cosa rimane di Garance e Raphaël terminata la scultura? È l’altro punto cieco che il racconto indaga, poiché il breve incontro tra i due è destinato a concludersi alla fine del reciproco scambio, la scintilla per la donna e l’ipotesi di amore per l’uomo. Il quale, finalmente considerato, in una scena centrale arriva a “provare” un nuovo occhio, ritagliandolo da un catalogo e incollandolo sull’orbita vuota, in modo tanto inquietante quanto struggente. Se qualcuno ti vede anche tu ti “rivedi”, finisci per riconsiderare te stesso e riformare la tua auto-scrittura, ciò a cui ti hanno abituaot. Anaïs Tellenne adotta un approccio rigoroso e a tratti frontale, alla maniera delle fiabe deoliveiriane di Catherine Breillat come La belle endormie, che viene però spaccato da improvvise esplosioni di sentimento, come avviene nel prefinale. Incontro, confronto e conoscenza tra figure agli antipodi; metamorfosi del brutto che diventa bello nell’occhio di chi guarda; riflessione sull’arte e su chi la realizza; schema classico della favola rivisto alla luce del presente: tutto ciò si riversa ne L’uomo di argilla ma c’è anche qualcos’altro, qualcosa che sfugge e resta nell’aria, impalpabile, forse è il profumo della fiaba.

Emanuele Di Nicola – cinecriticaweb.it

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