Jing è sordomuta e i rapporti con la madre ne rendono impossibile la convivenza: a complicare il tutto la relazione di affetto quasi morboso che si è instaurata tra Jing e lo zio materno. La ragazza viene quindi affidata al padre, il poliziotto Zhang Haoyang, che convive con la giovane musicista Mei. Ma tra Jing e Mei la coabitazione sarà tutt’altro che semplice…
Yang Mei Zhou
Cina 2011 (114′)
Un prodotto concepito essenzialmente per l’esportazione, con i difetti tipici di una cinematografia, quella della Cina Popolare, ancora acerba nelle sue infrastrutture benché goda di un potenziale ormai senza eguali. Chen Zhuo, come molti registi della generazione che non c’è – un tempo si era soliti raggruppare i registi cinesi cronologicamente, vedi “sesta” o “settima” generazione – ha l’aspirazione di rifarsi allo stile estetizzante di Zhang Yuan o Wang Xiaoshuai ma manca di una personalità robusta che possa tradurre i simbolismi in altrettante metafore credibili. Chen si serve di cliché e situazioni drammatiche che possano avvicinarsi alla sensibilità e al gusto dei festival europei, come se il “film da festival” costituisse (e in parte è così) un genere a sé, rigidamente codificato per stile e contenuti. Lunghi silenzi, immagini ricorrenti di un pesce rosso morto, l’attenzione a una fotografia sufficientemente “esotica”, per esaltare il non detto in una situazione estrema, in un nucleo familiare dissolto e ricomposto in forma anomala sotto l’obiettivo del regista.
Nella figura della protagonista sordomuta riecheggiano così i mutismi debitori di Antonioni di Tsai Ming-liang o le barriere invisibili di una diversità insormontabile che rendevano Oasis di Lee Chang-dong uno choc. E se l’intesa tra le due attrici protagoniste riserva ottimi spunti (benché il personaggio della musicista ribelle ma perdente in una società retriva sia un altro cliché da cui è difficile affrancarsi), la naturalezza pregevole di un cast di non professionisti mal si sposa con l’insistita autorialità della regia di Chen Zhuo, a cui non riesce il salto, quel piccolo ma sostanziale gap che permetta di “nascondere” la mano del regista-demiurgo nella messinscena di una storia ricca di simbolismi. Che è poi il divario, apparentemente stretto ma spesso incolmabile, che separa Tsai (che resta Tsai) dai molti che cercano di calcarne le orme.
Emanuele Sacchi – mymovies.it