The Elephant Man

David Lynch

Nella Londra Vittoriana il Dottor Treves scopre una sfortunata creatura deforme esibita in uno squallido sgabuzzino come L’Uomo Elefante e lo fa ricoverare nell’ospedale dove lavora. Scoprirà che John Merrick non è sordo né ritardato come si sospettava, ma anzi dotato di fine intelletto e profonda sensibilità.

USA/Gran Bretagna 1980 (124′)
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   Dalla vera e struggente vicenda di Jonathan Merrick, narrata dal professor Treves nei suoi appunti, David Lynch trae la sua seconda opera e, probabilmente, la più umana, fiabesca e pura della sua intera filmografia. La storia incredibile di Merrick è quella di un autentico mostro, marchiato da un destino perverso, che vuole solo essere accettato entro i confini di una società che, a ben vedere, è assai più mostruosa di lui. Che lo vedano come zimbello, come caso clinico o come divertissement per acquietare i sensi di colpa di una borghesia annoiata, Merrick non è che un fenomeno di costume, la cui natura umana viene continuamente negata e calpestata da tutti, tranne che da altri freaks come lui. Impossibile non emozionarsi davanti al dramma di John e alle sue meravigliose, quotidiane, scoperte: l’arte, il teatro, il bacio di una bella dama. Ma non sono lacrime retoriche, che sarebbe facile ottenere da una vicenda tanto straziante, bensì il pianto più intimo e arcaico: quello dell’uomo per il proprio destino insensato, disperato di fronte al silenzio divino. Straordinario il lavoro di John Hurt che, sotto chili di trucco deformante, riesce a trasmettere un calore e un’autenticità sorprendenti e ottima la prova di Antony Hopkins, mentore affettuoso e uomo scisso tra la sua anima scientifica e quella paternalistica. Splendida fotografia in bianco e nero di Freddie Francis. Otto nomination agli Oscar e, scandalosamente, nessuna statuetta vinta.

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   Per nostra buona sorte, Lynch non è né un melenso predicatore né un moralista in vena di contestazione storica Alle prese con una materia molto ricca di spunti critici, sull’ipocrisia, la bestialità delle plebi, i pregiudizi, lo snobismo dei filantropi, la speculazione degli scienziati la santità dei reietti e via sociologizzando, egli si muove soprattutto come uomo di cinema, correggendo l’indignazione con un filo d’ironia e dando al racconto un’andatura spesso affascinante. Contrariamente a quanto si può sospettare, non c’e niente di crudele in questa storia, nel contempo tristissima e tenera. C’e un civilissimo calore, molto affetto per i martiri incolpevoli e un gusto dell’eccentrico che non sconfina mai nel terrorizzante. C’è più Dickens che l’eco di Freaks, il classico film sui mostri di Browning. E ci sono attori di buona stoffa inglese. Mentre John Hurt merita ogni plauso per l’umiltà con cui ha accettato un trucco che lo deturpa e la misura con cui si trasforma da fenomeno di luna-park in vanitoso uomo, di mondo, il dottor Treves ha trovato in Anthony Hopkins un medico depoca quasi perfetto. Anne Bancroft è l’attrice che si lascia baciare senza disgusto e il presidente dell’ospedale è John Gielgud.

Giovanni Grazzini – Il Corriere della Sera

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