Basel Adra, un giovane attivista palestinese di Masafer Yatta, impegnato a documentare la graduale cancellazione della sua terra da parte delle truppe dell’IDF, incrocia nel suo cammino Yuval, un giornalista israeliano che si unisce alla sua lotta. Per oltre mezzo decennio combatteranno insieme contro l’espulsione, uniti un’insolita alleanza.
– film edito solo in Versione Originale Sottotitolata –
Palestina/Norvegia 2024 (96′)
European FILM Adwars – miglior documentario europeo
No Other Land è una collaborazione tra l’avvocato e giornalista palestinese Basel Adra, il fotografo e agricoltore palestinese Hamdan Ballal, il giornalista investigativo israeliano Yuval Abraham e la direttrice della fotografia israeliana Rachel Szor – tutti e quattro sono accreditati come registi e montatori. Basel e Yuval (chiamati per nome nel film) sono anche soggetti centrali, mentre Ballal fa alcune memorabili apparizioni come scettico del gruppo: “Ah, sei un israeliano che si occupa di ‘diritti umani’?” ride Ballal quando incontra Yuval per la prima volta. No Other Land è tanto specifico quanto affettivamente generalizzabile ad altri contesti contemporanei di dominazione strutturale nella sua rappresentazione dell’impotenza sotto uno Stato repressivo. Non si confronta direttamente con il più recente conflitto tra Israele e Hamas, ma documenta lo sfollamento forzato dei palestinesi a Masafer Yatta, in Cisgiordania, un gruppo di villaggi rurali. Il filo narrativo centrale è intessuto intorno al rapporto di lavoro tra Yuval e Basel, la cui vicinanza e fiducia in anni di collaborazione è visibile attraverso l’affetto fisico e le conversazioni profonde. Anche in questo caso, c’è un’inevitabile divisione tra loro, costruita dalle dinamiche di potere del sistema: Yuval ha piena libertà di movimento, Basel è completamente confinato. Fin dall’inizio, non si può distogliere lo sguardo dal filma che il collettivo ci presenta. Lo spettatore è immediatamente testimone della distruzione di case di cemento, diegeticamente accompagnata dalle urla delle famiglie palestinesi che chiedono il perché di un simile atto da parte dello Stato israeliano. Il film rende anche cattivo un uomo responsabile degli ordini di sgombero in loco, noto solo come Ilan. Nel ruolo del braccio lungo dello Stato, Ilan indossa con disinvoltura occhiali da sole riflettenti e magliette Nike traspiranti, in un abbigliamento che incarna una sorta di banalità del male.
No Other Land diventa un pugno allo stomaco che continua a dare e in cui l’immaginario ossessionante non perde mai la sua forza; Ilan potrebbe indossare un costume da clown e avere comunque l’assoluta capacità di decimare ogni casa costruita e ricostruita a Masafer Yatta. Il film diventa a volte persino così travolgente da instillare nello spettatore un senso di totale futilità: siamo davvero tutti così impotenti? La crudezza critica delle riprese del film è messa in prospettiva in una sequenza finale che prevede una breve visita di giornalisti internazionali che finiscono per sembrare invadenti, performativi e fuori dalla realtà palestinese. L’attrezzatura video professionale e l’intervista a una madre addolorata non hanno alcun peso rispetto alle riprese effettuate con il telefono e la videocamera da Basel e Yuval nel cuore degli scontri, dove la videocamera è tenuta dritta in faccia alla polizia militare, in modo altamente conflittuale e senza lasciare dubbi sulla sua soggettività. Queste telecamere “amatoriali” catturano in modo molto dinamico le esperienze degli oppressi mentre i due attivisti fuggono dalle autorità – mentre registrano, i telefoni vengono persi nella boscaglia durante gli scontri fisici, per poi essere recuperati. No Other Land dà il meglio di sé quando raggiunge la mobilità cinematografica: la macchina da presa agisce come un’estensione di questa documentazione attivista della violenta occupazione israeliana e non come un osservatore distaccato. Alla fine del film, la misura dell’impotenza è palpabile, ma i registi offrono un briciolo di speranza in questo atto transnazionale di solidarietà e resistenza.
Olivia Popp – cineuropa.org
Il documentario, iniziato nel 2020 e terminato a fatica nel 2023, ci immerge nel cuore della lotta per la sopravvivenza delle comunità beduine di Masafer Yatta, minacciate dalle demolizioni delle loro abitazioni e dalla confisca delle terre da parte delle autorità israeliane. Attraverso le testimonianze dei protagonisti, assistiamo alla quotidianità di un popolo che resiste con tenacia, pur consapevole dell’imminente sradicamento. È stato grazie al legame unico tra due registi specifici di No Other Land che il progetto ha preso vita. Si tratta di Basel Adra e Yuval Abraham, due figure chiave nel mondo del documentarismo e, rispettivamente, dell’attivismo palestinese e israeliano (…) No Other Land trascende i confini del semplice documentario per assumere le vesti di un vero e proprio manifesto politico. Il film non si limita a ritrarre la sofferenza delle comunità beduine di Masafer Yatta, ma scava a fondo nelle radici del conflitto, svelando le dinamiche di potere e le ingiustizie sistemiche che ne sono alla base. È un’analisi lucida e implacabile delle politiche di occupazione israeliane, un’accusa diretta rivolta alla comunità internazionale e un appello accorato a intervenire per porre fine a una situazione insostenibile. Grazie alla mobilità della macchina da presa e di conseguenza, a sequenze dinamiche e rocambolesche in alcuni momenti, nessuno può ritenersi di essere uno spettatore passivo. Tuttavia, alcune riprese possono disorientare lo spettatore meno avvezzo alla complessità del conflitto israelo-palestinese. La scelta di un approccio documentaristico crudo, se da un lato conferisce al film un’autenticità indiscutibile, dall’altro rischia di rendere la narrazione a tratti dispersiva, compromettendo la fluidità complessiva dell’esperienza visiva. Quest’opera rappresenta un passo avanti importante nella rappresentazione del conflitto in Cisgiordania.
No Other Land è il primo documentario realizzato da un collettivo di registi israeliani e palestinesi, che hanno lavorato insieme per offrire una visione condivisa e autentica della situazione, una testimonianza del fatto che, nonostante le profonde divisioni, è possibile costruire ponti e trovare un linguaggio comune. E si rivela essenziale per comprendere la complessità del conflitto israelo-palestinese: un’opera toccante, politicamente impegnata e coraggiosa, che ci invita a riflettere sul nostro ruolo di cittadini del mondo.
Eleonora Zanardi – taxidrivers.it