L’impero

Bruno Dumont

In un piccolo villaggio di pescatori nel Nord della Francia, nasce un bambino molto speciale che si trova al centro di una battaglia extraterrestre tra le forze del bene e quelle del male… Una curiosa parodia di kolossal fantascientifico in uno stile ibrido e folle che ha la forza di una bomba a orologeria pronta a esplodere a ogni sequenza.

L’ Empire
Francia/Ita/GerM/Belg/Port 2024 (110′)
BERLINO 74°: Orso d’argento – premio speciale della giuria

   Nella galassia due potenze extraterrestri (gli “0” e gli “1”) sono in lotta eterna tra di loro. Lo scontro finale avrà luogo sulla Terra: in un piccolo villaggio di pescatori nel nord della Francia, infatti, è nato, sotto sembianze umane, il figlio di Belzébuth, imperatore degli “0”, destinato a diventare il principe del Male. Entrambe informi, le due specie inviano dalle navi-madre (una enorme replica della Reggia di Caserta, quella degli “0” e una gigantesca Sainte-Chapelle quella degli “1”) i loro alfieri che “riempiono”, rispettivamente, i corpi/involucri di Jane (una sensualissima Anamaria Vartolomei) e Jony (Brandon Vlieghe): la prima per rapire il bambino con l’aiuto dell’idiota Rudy, il secondo per proteggerlo insieme alla nuova adepta Line (Lyna Khoudri). Mentre una scalcinata coppia di gendarmi cerca di fare luce sui misteriosi avvenimenti che sconvolgono il villaggio, Jane e Jony si scoprono attratti dai rispettivi corpi, pur essendo nemici giurati e, come tali, destinati ad una battaglia epica sopra il cielo della Normandia. Bruno Dumont firma con L’impero (premio della giuria all’ultimo Festival di Berlino) un’opera perfettamente coerente con la sua cinematografia che, sotto la superficie fantascientifico-artigianale, si interroga sull’uomo, le sue pulsioni, l’eterno contrasto tra Bene e Male, partendo da una galassia lontana lontana per tornare, infine, all’origine di tutto (l’umano, appunto). Il film, tra autocitazioni, riferimenti seri (difficile non pensare a Dune ma anche a Twin Peaks di David Lynch, a cominciare dai bizzarri personaggi che sembrano usciti direttamente dalla Loggia Nera e, naturalmente a Star Wars se non altro per le spade laser), suggestioni demenziali e stralunate (il cinema di Dupiex ma anche quella genialata di Bill & Ted’s Bogus Journey e persino Jacques Tati nella esilarante figura del comandante della polizia) e una sessualità giocosa e irrefrenabile (esibita o anche solo richiamata dalle forme dei portali alieni o dalla mise “alla Tomb Raider” di Jane), è un caleidoscopio di invenzioni continue, trovate grottesche e divertenti, ma anche momenti struggenti nell’amore impossibile tra Jony e Jane, infinitamente distanti come lo “0” dall’“1”. Fabrice Luchini è Belzébuth mentre Camille Cottin è la regina degli “1”. Imperdibile.

Marco Contino – Il Mattino di Padova

   Nell’ondeggiare dissacrante del suo cinema, Bruno Dumont sembra voler definitivamente affermare quanto sacralità e trivialità non abbiano in comune soltanto l’ultima vocale accentata, ma governino il mondo in una conflittualità degenerata dove tutto null’altro è che parodia del reale, a cominciare appunto dal cinema. Mai come adesso L’impero sembra essere una matrioska di un’opera globale di un regista che svela, di film in film, un’infinita ripetitività delle argomentazioni, sulle quali spadroneggia da sempre la condizione esistenziale dell’umanità, perduta ciecamente nella necessità di un divino che ne riscatti la propria inutilità e al tempo stesso nella fondata rassegnazione che ciò sia illusorio. Deformando la realtà e la caratterizzazione dei suoi personaggi, in un contesto via via sempre più grottesco e sprezzantemente sarcastico, Dumont offre ancora al suo paesaggio più amato (in questo caso la Côte d’Opale, sul litorale nord occidentale della Francia) la dimora di una insensatezza costante e allarmante, catturando stavolta il sovrannaturale come elemento decisivo nell’esercizio quotidiano di ogni comportamento terreno, incapace di sondare il mistero della vita. Se tutto il suo cinema è un rimbalzo continuo di genere, dimostrandone la vacuità di fondo, al regista francese mancava solo la fantascienza per immergersi in uno scenario definitivo che si scrollasse di dosso anche la limitatezza terrestre. Così L’impero (Premio alla regia all’ultima Berlinale) è davvero un richiamo facilmente identificabile con le lucasiane Guerre stellari, definendo lo scenario burlesco della lotta tra gli Uni e gli Zeri (in un sistema identificativo binario), in un ambiente di pescatori, dove un bambino, non a caso, svolge il ruolo di un Messia, e gli umani non sono che una piccola parte della gente del posto. Sfruttando storiche nozioni di architettura (dal gotico delle cattedrali ai modelli vanvitelliani ed escheriani, che danno energia cinetica a improvvisate astronavi) e confutando ogni richiamo a esilaranti esigenze narrative, a cominciare dalle spade laser fino al magma nero autodeformante, Dumont mette definitivamente in campo l’ossessione dei corpi e la loro fondamentale prosaicità, con uno sguardo beffardo tra cielo e terra, tra finitezza ed eternità, in un’atmosfera di sospensione irrealistica di ogni azione, dove il naturalismo geografico diventa un teatro paradossale. Prima di decifrare l’apocalittico finale e l’ultima inquadratura sul primo piano del bambino che afferma gaudioso «È tutto», andrebbero anche segnalate le performance attoriali, a cominciare da uno scalmanato, caricaturale Fabrice Luchini (ovviamente Belzebù), fino ad Anamaria Vartolomei (la principessa Jane degli “Uno”) e Camille Cottin (la Regina).

Adriano De Grandis – Il Gazzettino

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