Berlinguer – La grande ambizione

Andrea Segre

La storia di un uomo per cui vita e politica, privato e collettivo, erano indissolubilmente legati, un ritratto biografico (interpretato da un eccezionale Elio Germano) che parte dal viaggio a Sofia del 1973, quando Berlinguer sfuggì a un attentato dei servizi segreti bulgari, e arriva, nel 1978, all’assassinio di Aldo Moro, che portò alla drammatica fine della strategia del compromesso storico. “Un viaggio in un pezzo della nostra storia che non ho vissuto e che ho imparato a conoscere” (A. Segre).

Italia 2024 (122′)

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     L’ambizione di Berlinguer di dar vita negli anni 70 a un governo che riunisse comunisti e cattolici va di pari passo con l’ambizione di Andrea Segre (e del cosceneggiatore Marco Pettenello) di usare il cinema (di finzione, non solo documentario) per raccontare il pensiero del leader politico che aveva guidato il Pci in quegli anni tormentati. E se quel progetto fu fatto naufragare dalle Brigate Rosse col rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, diciamo subito che il film Berlinguer – La grande ambizione, scelto per inaugurare la 19ª edizione del Roma Film Fest, la sua invece la porta a compimento. E anche ottimamente. Il film si apre con il golpe in Cile e il viaggio di Berlinguer a Sofia, dove scampò a un incidente che lui considerò un attentato, e si chiude di fatto con la notizia del ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani, a cui seguono le immagini del funerale del segretario del Pci sei anni dopo, nel 1984. Ma sono i cinque anni che vanno dal 1973 al 1978 il cuore del film e del racconto di Segre, che affronta i temi politici e i dibattiti nella direzione del partito scegliendo volutamente un sottotono emotivo, non per nascondere le voci discordanti (che si sentono: Ingrao, Terracini) ma per mettere in evidenza i momenti cruciali di quelle scelte, per far emergere le ragioni, i dubbi, le riflessioni. E allo stesso modo i momenti privati, in famiglia, con la moglie Letizia e i quattro figli (Bianca, Laura, Marco e Maria) non servono per alleggerire o distrarre dalla politica ma per offrire un ulteriore aspetto dell’uomo, a cui Elio Germano offre un’interpretazione d’antologia, sobria e intensa insieme. Al film non interessa prendere posizione pro o contro il «compromesso storico» o innescare l’ennesimo dibattito ideologico ma piuttosto restituire i passaggi essenziali di un pensiero politico che voleva confrontarsi con i bisogni dell’Italia. L’obiettivo è esplicitamente didascalico, ma ottenuto per forza di morale e non di retorica. Morale delle immagini per prima cosa, tutta giocata sul contrasto tra la ricostruzione del dibattito politico e l’uso del materiale di repertorio, capace di restituire non la militanza delle bandiere rosse ma la realtà dei volti di un popolo. Poi morale della politica e del discorso politico, decantato e distillato nella sua essenzialità. E infine morale della recitazione, con un gruppo di attori perfetti nel restituire l’umanità dei personaggi senza inseguire il noschesismo.

Paolo Mereghetti – corriere.it

  Tre livelli di scrittura convivono in Berlinguer. La grande ambizione, il film di Andrea Segre che ha portato il suo bravissimo interprete, Elio Germano, a vincere il premio come miglior attore alla recente Festa del cinema di Roma. E sapendo la cura con la quale il regista, assieme allo sceneggiatore Marco Pettenello, ha scritto il film in lunghi mesi di lavoro e di documentazione, meritano di essere analizzati.
Il primo livello sono i discorsi. Berlinguer-Germano parla in molte occasioni pubbliche: comizi, congressi (memorabile la ricostruzione del plenum del Pcus tenutosi a Mosca nel 1976), assemblee, incontri con i militanti. In queste lunghe sequenze, scrupolosamente ricostruite sulle fonti, Segre e Pettenello recuperano il “discorso politico” degli anni 70 che – soprattutto rispetto al borborigmo social di oggi – è incredibilmente denso, concreto, complesso. Perché la politica è complessa e Berlinguer lo sapeva, pur sforzandosi – da segretario di un partito popolare – di rendersi comprensibile a tutti. In questo senso il film è una grande lezione di politica in fieri, di fronte alla quale quasi tutti i politici odierni dovrebbero inchinarsi, vergognandosi un po’. Il secondo livello è la famiglia. Sono molte le scene di Berlinguer con la moglie (Elena Radonicich) e i figli, e qui si lavora su un “realismo borghese” semplice ma efficace. La cosa affascinante è che anche in casa il segretario parla di politica. Ma lo fa con toni e lessico diversi. Deve farsi capire dai figli, non dai militanti. Ed è ancora più difficile.

Il terzo livello è il confronto con i colleghi, siano compagni di partito (le riunioni della direzione, le veglie elettorali) o avversari (Moro, con cui c’è un confronto caloroso, e Andreotti, che è ovviamente infido). Lo diciamo per i fascisti affranti: Almirante, nel film, non c’è. Qui la retorica era in agguato ma Segre e Pettenello la dribblano con classe: i politici parlano come parlavano i politici di allora (cioè meglio di quelli di oggi, ancora) ma molto merito è degli attori chiamati a interpretarli, e ovviamente di Segre che li dirige. Nessuno cerca l’effetto-Bagaglino, né il metodo-Noschese, tranne forse Paolo Pierobon che volutamente rende Andreotti abbastanza grottesco (ma il “tocco” del divo Giulio che chiede di portarsi via dalla riunione una bustina di zucchero, perché “le colleziona”, è sublime). Roberto Citran non si sforza di “imitare” Moro, Francesco Acquaroli non somiglia per nulla a Ingrao, Paolo Calabresi (Pecchioli), Luca Lazzareschi (Natta), Stefano Abbati (Terracini), Andrea Pennacchi (Barca), Pierluigi Corallo (Tatò), Lucio Patané (Cervetti) e Fabrizia Sacchi (Nilde Iotti) non sono i sosia dei rispettivi personaggi. Recitano in modo piano, lontani da ogni caratterizzazione forzata. È proprio in questo terzo livello che Berlinguer si discosta sia dallo stile barocco del Sorrentino del Divo o di Loro, sia dalla forza visionaria del Bellocchio di Esterno notte, sia dalla mimesi esasperata e immaginaria che Favino faceva di Craxi in Hammamet di Amelio. Segre nasce documentarista, e si vede. Il suo film è una ricerca costante della fedeltà storica. La vicenda copre gli anni dal ’73 al ’78 (sequestro Moro, fine della “grande ambizione” di portare il Pci al governo) e li ricrea con cura filologica.

Germano non “ricrea” Berlinguer con il trucco quasi eroico usato da Favino per Craxi o da Gifuni per Moro. Lo vive “dall’interno”, curando soprattutto la postura e la voce. Se nei film sopra citati lo spettatore si ritrova nel mondo poetico, di volta in volta, di Sorrentino o di Bellocchio o di Amelio, qui ci ritroviamo nel Pci degli anni 70, un partito che era votato da un italiano su tre e che aveva una dialettica interna feroce e al tempo stesso trasparente. Ogni vecchio militante ha una propria idea di Berlinguer, non necessariamente adorante: qui incontriamo un uomo con mille dubbi, forse sinceramente impaurito dalla stazza e dalla prepotenza di Leonid Breznev (l’attore Nikolaj Dancev, lui sì, gli somiglia) ma convinto di avere un’ambizione giusta, di percorrere una strada che poteva portare il popolo comunista e l’Italia tutta verso un Paese meno infingardo. Com’è andata, purtroppo, lo vediamo quotidianamente. Gran bel film, con un uso molto intelligente del repertorio. E nel finale, quando sullo schermo appaiono le immagini dei funerali in quel triste giugno del 1984, non ci resta che piangere.

Alberto Crespi – repubblica.it

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