Parthenope

Paolo Sorrentino

Parthenope nasce dal mare, ma non è né una sirena, né un mito. Negli anni dell’università sviluppa una passione smodata per l’antropologia, pur non sapendo cosa sia, ma dimostrando una curiosità e una capacità di apprendere fuori dal comune. La sua giovinezza, però, se ne sta andando, mentre la sua famiglia inizia a disgregarsi a causa di un trauma che la segnerà per tutta la vita.

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  Una parte(nope) per il tutto. Tre anni dopo il potentissimo È stata la mano di Dio, Paolo Sorrentino torna dietro la macchina da presa per approfondire un personaggio che rappresenta molto di più, una sineddoche del golfo di Napoli, ma anche di un’intera esistenza, raccontata attraverso varie tappe contrassegnate da eccitazione e malinconia, gioia e paura, vita e morte. Se nel film del 2021 il regista partenopeo parlava esplicitamente di se stesso, in questo caso opta per una figura femminile profondamente simbolica e capace di inglobare nella sua storia tantissime altre vicende. Dopo un ottimo incipit, il film diventa per qualche sequenza più controllato, ma mai freddo, prima di esplodere nella splendida parte a Capri, dove si respira tutto il racconto di una giovinezza tanto spensierata quanto già nostalgica, prima che un evento tragico faccia passare Parthenope all’età adulta.

Per la prima volta nella sua carriera, Sorrentino opta per una protagonista femminile all’interno di una pellicola in cui le donne hanno diversi ruoli dominanti, ma dove svetta anche lo splendido professore interpretato da Silvio Orlando, una figura di mentore per la giovane protagonista in uno dei duetti più efficaci e incisivi che Sorrentino abbia mai realizzato (ma non va sottovalutato anche il John Cheever interpretato da Gary Oldman). La sua cinepresa, inoltre, danza in questo film ragionando in maniera perentoria sui corpi in scena, regalando una serie di sequenze di grande forza sul versante audiovisivo, capaci di descrivere al meglio quella grande bellezza (non a caso il film si apre con una citazione da Céline, come nel lungometraggio del 2013) impossibile da ritrovare per il personaggio di Jep Gambardella. Dalle immagini del mare allo scudetto del Napoli del 2023, Parthenope è però anche una riflessione storica e antropologica sulla città del regista, ancora raccontata nei suoi vizi e nelle sue virtù da Sorrentino che – quantomeno a livello di ambientazioni – l’aveva lasciata dopo l’esordio con L’uomo in più (2001) per ritrovarla proprio con È stata la mano di Dio. Notevolissimo, inoltre, il lavoro di tutto il cast, a partire dall’eccellente protagonista Celeste Dalla Porta, perfetta in un ruolo non semplice e in cui doveva trasmettere con il suo sorriso e la sua bellezza tutto lo sgomento per una giovinezza che, anche nel momento in cui si sta vivendo, appare già perduta e lontana nel tempo.

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   Non si capisce perché, dopo il molto bello (difatti ha funzionato dappertutto, da Venezia agli Oscar) È stata la mano di Dio, dove si abbandonava a una narrazione accessibile e accattivante riallacciandosi anche ai modi tradizionali nella teatralità napoletana, stavolta Sorrentino sia tornato a un film ultraconcettuale, il più antinarrativo e respingente che abbia mai fatto, un oggetto a tratti inaccessibile, anche se la sua capacità di metteur en scène non viene smentita.
Ma come si fa a raccontare Napoli, di cui tutto è stato detto e mostrato? Anche a rischio della sgradevolezza, Sorrentino cerca di scostarsi dai mille cliché della napoletanità, ed è un coraggio che bisogna riconoscergli. Non si intravede però quale sia la direzione intrapresa. Non ci resta che seguire la protagonista Parthenope, dal 1950, anno della sua nascita (i suoi fanno parte della cerchia del comandante e già discusso sindaco della città Achille Lauro), quindi via via nelle sue fasi evolutive. Attraverso di lei entriamo nelle pieghe e negli abissi di una Napoli in apparente perenne mutazione in realtà sempre uguale a sé stessa, fissata al proprio passato. Squarci, ritratti, affreschi, miniature, corpuscoli e frammenti collegati solo dalla presenza di Parthenope (…) Perché l’automanierismo, il ricalco del proprio stile è ormai debordante. Si procede per impressioni, sensazioni, in un soggettivismo esasperato. Tutto è pomposo, magniloquente, tutto viene pensosamente filmato e messo in quadro, con movimenti di macchina ampi e/o lenti, talvolta con ricorso a un imperdonabile ralenti. Tutto diventa rituale, cerimonia sacra, anche il più banale quotidiano, tutto, anche il minuscolo e il triviale, viene assunto nei cieli del sublime.

Citazioni continue, dialoghi di esibita cultura, profluvio di aforismi, in una sentenziosità come scolpita nel marmo. Come se il cineasta Sorrentino si fosse lasciato sopraffare dal Sorrentino scrittore, come se lo sguardo fosse stato offuscato dalla parola. Alcune parti si fatica a guardarle, come quella di insostenibile laidezza con il cardinale alle prese con il miracolo di San Gennaro (e con Parthenope che lo segue o anticipa in infiniti corridoio e anfratti di un palazzo barocco che si suppone vescovile. E però anche in questa parte un’immagine folgorante c’è, Parthenope abbigliata come una Papessa o una imperatrice di Bisanzio, a ricordarci il talento visivo-visionario di Sorrentino)…

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  Parthenope sorge dalle acque, figlia del mare, voluttuosa ninfa che si distende al sole e si nasconde dietro veli fruscianti, regina di una villa che si affaccia sul mare di Napoli, sovrana indiscussa di un vasto microcosmo domestico che sembra farsi bastare se stesso e somiglia pertanto più a un castello d’altri tempi che a una casa. Dalle sue spesse mura il resto del mondo giunge remoto, anzi, sembra non esistere affatto. Parthenope non esce mai, non va a scuola, non ha amiche, si limita a trastullare diligentemente la propria bellezza. Il letto in cui dorme è una carrozza, il suo unico amante è il figlio della governante che la consuma di sguardi adoranti e al quale lei rivolge frasi che dovrebbero suonare conturbanti e che invece sono solo estatiche, ingenue. È il principe Siddharta che del mondo conosce solo le gioie e le ricchezze perché non è mai uscito dal fatiscente palazzo in cui abita. Dice Paolo Sorrentino che Parthenope parla della giovinezza, di una caratteristica precipua della giovinezza, che è la vertigine dell’abbandono. Eppure per la protagonista dura pochissimo. Nel momento in cui esce dal palazzo e prende contatto con il mondo, il suo sogno di incontestabile purezza si infrange.

Basta una rapida trasferta a Capri, una sola notte di casto ardore, al termine della quale Parthenope si scopre non più giovane, non più felice. Ha appena avuto modo di constatare il potere della sua bellezza, gli sguardi degli uomini che incessantemente si posano su di lei, decine di mani che si tendono al suo passaggio. “You can have it all without even ask”, le suggerisce Gary Oldman nei panni del celebre scrittore statunitense John Cheever.

Parthenope gli crede, per un minuto. Si bea di questo fragile, totalizzante privilegio, si mostra nuda al giardiniere, accetta l’offerta di un picnic sotto le stelle da parte di un ricco miliardario in elicottero, balla a occhi socchiusi, indossa un vestitino di strass che riflette la luce della luna. Poi, l’alba arriva livida e l’illusione, la vertigine, l’irresponsabilità, sempre per citare Sorrentino, scompaiono. Parthenope resta sola. Amaramente aggrappata al ricordo di quelle poche ore notturne, che costituiranno per sempre il suo apice esistenziale, il culmine inconsapevole della sua intera vita, il barlume potenziale di qualcosa che non si consuma, non si realizza, non giunge a compimento. Avrebbe potuto dedicarsi oziosamente alle feste, agli eccessi, alla seduzione fino all’età adulta. Diventare un’attrice di successo, come arditamente le propone un’agente che la nota seduta al tavolo di un ristorante. Essere viziata, vezzeggiata, acclamata. Invece, il suo destino si rivela arido. Le battaglie politiche degli anni Settanta la sfiorano, le passano accanto in un tumulto disordinato, mentre lei appena se ne accorge e piange, costretta in un nero tailleur, dopo essersi fatta accettare la tesi di laurea.

È curioso che il solo elemento a stagliarsi in una sequela altrimenti vana di occasioni perdute, mancate sia lo studio. Parthenope non diventa un’attrice, non calca i palcoscenici, si avvia invece alla carriera universitaria. Insegna. È curioso anche che l’unico rapporto che in qualche modo la consola, la indirizza, la segna nell’accezione positiva del termine sia quello con il suo insegnante, interpretato da Silvio Orlando, docente alla facoltà di Antropologia. Il ritratto di Parthenope, il suo volto pieno, le sue forme floride, che avrebbero potuto rappresentare tutta la baldoria delle gioie effimere, lussuriose, veraci, si trasformano in quello compunto e saggio del dotto. Si può dunque definire un film sulla giovinezza? Forse, se intendiamo la giovinezza come un prisma più complesso e imprevedibile dei significati stereotipati che normalmente le si attribuiscono. Intorno alla giovinezza gravita l’idea della libertà, della passione, delle linee formali dei confini che si alterano. In questo senso, è giovane chiunque sia compreso tra: chiunque oscilli, chiunque stia in mezzo a due cammini, a due possibilità in divenire. L’infanzia e la maturità, la follia e la ragione, il radicarsi e il separarsi. Sarà stato allora l’incontro con l’antropologia, la ricerca di una definizione che potesse soddisfarla, quel suo “Che cos’è l’antropologia?”, il cui rovello assume la valenza di un quesito capitale a rendere giovane Parthenope. Infatti il professore alla fine le risponde: “L’antropologia significa vedere”. Vedere, rinunciare allo sguardo offuscato e confuso del puer e anche a quello cinico e abbandonato della senilità si rivela più esaltante del cieco tripudio dei sensi connesso ai primi amori che spesso, come dice a un certo punto la stessa Parthenope, non servono a niente.

Benedetta Barone – elle.com

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