Il tempo che ci vuole

Francesca Comencini

Un racconto autobiografico di alcuni momenti trascorsi dalla regista con suo padre. I due condividono la passione per il cinema, nonostante le diverse scelte di vita e i modi di stare al mondo. La storia è ambientata durante gli anni di piombo, sul set di Pinocchio, il film a cui sta lavorando Luigi in quei giorni. Lei è una bambina ma lui le parla con serietà, compostezza e rispetto come si fa con un’adulta. Francesca cresce e diventa ragazza in un periodo storico di cambiamento, ricco di lotte politiche e di rivoluzioni sociali, ma purtroppo anche di stragi. La sua passione per il cinema la accompagna sempre ma la magia fa spazio all’insicurezza…

Italia/Francia 2024 (110′)

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   Un padre (Fabrizio Gifuni) e una figlia (Romana Maggiora Vergano). Il cinema e la vita. L’infanzia che sembra perfetta e poi diventare grandi sbagliando tutto. Cadere e rialzarsi, ricominciare, invecchiare, diventare fragili, lasciarsi andare ma non perdersi mai. Il tempo che ci vuole per salvarsi.
Terminate due importanti esperienze nella serialità con le due miniserie Luna Nera e Django, Francesca Comenicini ritorna a dirigere un lungometraggio per il grande schermo, sette anni dopo Amori che non sanno stare al mondo (2017). Il tempo che ci vuole, opera dalla fortissima impronta nostalgica e personale, segna il ritorno di Comencini a quel tipo di cinema che aveva contraddistinto il suo esordio alla regia nel 1984, arrivato a soli 23 anni con Pianoforte. In quel caso, l’allora giovanissima autrice, seguendo le fasi della tossicodipendenza di una ragazza, rievocava attraverso le immagini del suo cinema la traumatica esperienza da cui lei stessa era da poco riuscita a uscire, anche grazie all’aiuto del padre, Luigi Comencini. Trent’anni dopo, è proprio il rapporto di amore e odio avuto con il padre, interpretato con grande compostezza da Fabrizio Gifuni, a essere il fulcro narrativo attorno a cui gira Il tempo che ci vuole. Comencini, infatti, ricostruisce le diverse fasi del loro intenso legame affettivo, rievocando “frammenti di vita” condivisi con il padre, tra infanzia e adolescenza: alcuni di grande tenerezza, altri molto più complicati e sofferti. Il ricordo di papà Luigi, però, non può non passare dalle esperienze avute dalla piccola Francesca sui set delle opere del padre, tra le quali spicca il memorabile sceneggiato televisivo Le avventure di Pinocchio, realizzato nel 1972, quando Francesca aveva poco più di dieci anni. È in queste sequenze che la regista riesce a raccontare, attraverso i suoi stessi giovani occhi, quell’amore viscerale del padre nei confronti del cinema. “Cinema” inteso come luogo, fisico e mentale, all’interno del quale “è possibile scappare con la fantasia” dalle sofferenze della vita vera. Anche per questo, Il tempo che ci vuole è un’opera che rende omaggio nel modo più sincero a un uomo, prima ancora che a un regista, al suo cinema e al suo modo di essere, cercando di restituirci tutta l’importanza avuta sia come autore per il cinema italiano, sia come figura paterna per la regista stessa…

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   Tra un ciak e l’altro di Pinocchio, uno dei suoi lavori più celebri, Luigi Comencini urla: «Prima la vita, poi il cinema!». Non è uno che urla spesso, è un uomo pacato, buono e distinto, di quelli forgiati dal dopoguerra e dal suo conseguente entusiasmo. A questo giro ce l’ha con l’assistente alla regia, colpevole di aver trattato in malo modo una delle tante signore che abitano le strade del set dove si sta girando: non dovrebbe affacciarsi alla finestra, se appare in campo la scena è da buttare e va rifatta. Ma questo poco importa al Comencini, lui e gli altri della produzione sono solo degli ospiti, e come tali devono rispettare il luogo dove si trovano: come urla all’assistente, viene prima la vita. Ne Il tempo che ci vuole, il nuovo film di Francesca Comencini presentato fuori concorso all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, la vita viene prima di tutto, il cinema fa da collante tra una giornata e l’altra, è una forte cura ai dispiaceri che possono sconvolgere una famiglia ed è l’unica cosa capace di riempire il vuoto di un’adolescente cresciuta negli anni di piombo. È la storia di un padre, Luigi Comencini, interpretato magistralmente da Fabrizio Gifuni, di sua figlia Francesca, impersonata dalla bravissima Romana Maggiora Vergano, e del loro intricato rapporto. Lui è un padre sempre presente, nonostante il lavoro partecipa a ogni momento della vita della figlia: l’accompagna a scuola e risolve in prima persona tutti i suoi problemi. Sa rincuorarla quando è triste e sa convincerla a superare ogni sua paura. Il loro rapporto si basa sulla fiducia: il padre crede sempre alla figlia e lei dice sempre la verità. Tutto fila liscio fino a quando quella bambina incapace di dire bugie cresce e diventa una piccola donna, in balia del suo futuro e di un’incertezza che la tormenta. Non si sente capace di far nulla, non ha alcuna vocazione e guarda con grande diffidenza al domani. Gli anni in cui cresce sono difficili: c’è la strage di Piazza Fontana, c’è il rapimento di Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit Siemens, il primo sequestrato dalle Brigate Rosse. Proprio uno degli slogan delle BR sembra esser l’unica frase capace di darle coraggio: «Mordi e Fuggi! Punirne uno per punirne 100!». Forse non ci crede nemmeno alla lotta armata, ma è arrivata a scrivere quella frase sul muro della sua camera. Ma negli anni di piombo oltre al terrorismo, inizia a farsi strada un altro male: l’eroina.

È arrivata anche nella vita di questa ragazza insicura che ha ora imparato a dire le bugie, si vergogna di ciò che fa ed è incapace di confessarlo a suo padre, che nel frattempo si sta ammalando di Parkinson e ha iniziato a mettere in dubbio la sincerità della figlia. Francesca Comencini ha deciso di dire grazie a suo padre. L’ha fatto meravigliosamente, quando i tempi erano ormai maturi, lei abbastanza grande per raccontare le proprie fragilità e più che esperta per poter rendere il giusto omaggio a un regista che ha fatto la storia del cinema nostrano. Il tempo che ci vuole non è solo un racconto autobiografico. Partendo dai primi anni dell’infanzia fino ad arrivare alla tarda adolescenza, si assiste allo sviluppo di un rapporto fatto di alti e bassi, quello tra un padre che teme per il futuro della sua ormai ex bambina e una figlia che condivide le sue stesse preoccupazioni. Non solo, la Francesca adolescente fatica nell’accettare la malattia del padre, specie quando il rapporto è ormai ritrovato e teme di perderlo. La paura del fallimento è un grande cruccio per Francesca, solo quando avrà la forza di ammetterlo scoprirà quanto lo sia anche per il padre: «Sempre tentare e sempre fallire, e fallire sempre meglio» sarà la lezione di Comencini alla figlia. Ci penserà poi l’amore condiviso per il cinema a sistemare le cose, facendo trovare a Francesca la sua vera strada.

Andrea Zedda – vanityfair.it

“Ricordati, bambina mia: non ti fidare troppo di chi sembra buono, ma sappi che c’è del buono anche in chi sembra cattivo” scandisce il cineasta con basette e coppola alla figlia ancora piccola ma già irrequieta, indocile. Comencini osserva con infinita pazienza quella bimba che frequenta l’esclusiva scuola francese, lo segue sul set e non riesce a uscire dall’inquadratura, fino a perdersi, durante una scena da girare al tramonto (la famosa “luce a cavallo”). È come se il regista di Incompreso sentisse la fragilità di Francesca, ma proteggerla dal mondo esterno, dalla balena, non è facile, benché lei si diverta a farsi spalmare la schiuma da barba sul viso fingendo di radersi come un maschietto. Intanto passano gli anni, tra gli echi di piazza Fontana e le prime azioni criminali delle Brigate Rosse; la ragazzina s’è fatta adolescente, e quando nel 1978 i suoi compagni di classe applaudono per il rapimento di Aldo Moro, be’ anche lei partecipa a quel deprecabile rito. Subito dopo arriverà la tossicodipendenza: nefasta e implacabile. A quel punto, papà Luigi, nonostante il progressivo tremore parkinsoniano, decide di trascinarla a Parigi per prendersi cura di lei. “Quanto resteremo fuori?” chiede lei. “Il tempo che ci vuole” risponde lui. Il tempo che ci vuole, vibrante ma non dolciastro, è trapunto di citazioni e omaggi: da L’Atlantide di Pabst a Paisà di Rossellini e L’enfance nue di Maurice Pialat, da Hey Hey My My (Out of the Blue) di Neil Young a Il cuore è uno zingaro di Nicola Di Bari, e poi il racconto Due o tre Grazie di Aldous Huxley, il Pinocchio muto del 1911 di Giulio Antamoro, le riprese a Napoli di Marcellino pane e vino che fu l’ultimo film girato da Comencini, nel 1991, per non dire del finale altamente simbolico che rimanda a un classico del neorealismo. Il film si apre e si chiude con due fotogrammi che ritraggono un bambino dormiente sul bordo di uno stagno. Appartengono a un film muto del 1916, di Umberto Paradisi, precisamente l’ottavo episodio, Dagli Appennini alle Ande, di un serial cinematografico desunto dal libro Cuore (il piccolo attore si chiamava Ermanno Roveri). Molti anni dopo, nel 1984, Luigi Comencini avrebbe tratto una miniserie tv proprio da quel romanzo.

Michele Anselmi – cinemonitor.it

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