Cloud

Kiyoshi Kurosawa

Ryōsuke Yoshii lavora in una piccola fabbrica e fa qualche soldo in più come rivenditore sotto lo pseudonimo di “Ratel”. Tratta attrezzatura medica, borsette, oggettistica… Tutto ciò che può rivendere per ricavarne un profitto. Compri al ribasso, vendi al rialzo: tutto qui. Muraoka, che gli ha insegnato i trucchi del mestiere quando erano compagni ai tempi del college, gli fa una proposta potenzialmente redditizia, ma lui rifiuta e continua con la sua discutibile attività. Si fida solo del suo conto in banca che continua ad aumentare. Rifiuta categoricamente anche una promozione e si dimette all’improvviso dopo tre anni di lavoro. Affitta una casa sul lago fuori città, sia per viverci sia per trafficarci, e inizia una nuova vita con la sua ragazza, Akiko. Con l’aiuto di Sano, un giovane locale assunto come aiutante, il suo business pare andare a gonfie vele, finché intorno a lui non iniziano a verificarsi inquietanti episodi uno dopo l’altro. Una spirale negativa di animosità si trasforma in una folla impazzita di dimensioni sconosciute. Il suo obiettivo è Yoshii, la cui inconsapevole esistenza viene rapidamente fatta a pezzi….

 

Giappone (124′)

VENEZIA – Il cloud è un luogo di archiviazione dei dati, che si appoggia a una serie di server remoti ospitati su internet. Uno spazio astratto in cui si muovono fantasmi digitali con i quali il mondo contemporaneo interagisce quotidianamente e, dunque, luogo d’elezione per nutrire quegli incubi della modernità che da sempre popolano il cinema di Kyioshi Kurosawa.. 

 A quattro anni dal Leone d’Argento per Wife of a Spy, il maestro giapponese torna alla Mostra del Cinema di Venezia, ma fuori concorso e in sovrappiù relegato da una sciagurata decisione degli organizzatori all’invisibilità della proiezione di mezzanotte (sorte toccata pure all’esperimento videoludico di Harmony Korine Baby Invasion – che si tratti di due tra i film di maggiore interesse visti al Lido dovrebbe far riflettere sull’opportunità di gestire diversamente il programma festivaliero). Un ritorno che, dopo l’esperienza del precedente film a tinte storiche, è anche ritorno all’universo di inquietudine che aveva informato i suoi primi film, per quanto ora pervertito e riadattato a interpretare i sintomi delle nuove malattie che infettano la modernità. Già da qualche tempo, difatti, il cinema di Kurosawa ha saputo intercettare i nuovi squilibri nati in seno alla asfittica società nipponica, quelle ossessioni che si muovono sottopelle come parassiti, minacciando l’improvvisa rottura dei rapporti interpersonali. Della ricerca lungo le direttrici di queste nuove tensioni, tutte tese ad alterare l’equilibrio mentale degli individui, Chime (2024), mediometraggio presentato a Febbraio alla Berlinale, costituisce, sinora, l’apice. In appena quarantacinque minuti, la macchina da presa di Kurosawa disegna un universo di puro terrore, guidata da un rintocco, un suono, che cresce nella mente del protagonista, come un’escrescenza tumorale, a violarne irrimediabilmente la salute psichica.

Cloud prosegue ora sulla medesima china del film precedente, ossia trasferendo l’orrore e la violenza, che alla fine degli anni Novanta albergavano in un network senza corpo, alla sua controparte materica: il corpo sociale. Nell’universo inscenato da Kurosawa la rete non si fa più esplicito architetto di mostri, ma sottilmente quei mostri li nutre e ne guida la crescita nel suo terribile rivolto, vale a dire il mondo reale. Nella prima parte – da molti al Lido giudicata noiosa, opinione inspiegabile per chi scrive, dal momento che alla maestria di Kurosawa basta ormai una durata appena eccedente dell’inquadratura o un controcampo mancato per ingenerare una tensione che ci si intarla nel cervello e pizzica, in un crescendo discreto e inesorabile, i nostri nervi di spettatori – seguiamo le vicende di un ladruncolo dell’era digitale, un piccolo truffatore che più o meno illecitamente fa scorta di prodotti da rivendere in rete a prezzo maggiorato. In breve, nei forum degli acquirenti – e chiunque abbia anche solo scorso su un social qualsiasi le scorribande di utenti subito pronti, al primo sospetto di discordia, a scadere nell’insulto, nel linguaggio violento e nel turpiloquio non stenta certo a immaginarlo – monta contro di lui un malcontento assai severo, che si spande di byte in byte sino a dilagare oltre le sponde del web.

In questa fase la macchina da presa di Kurosawa segue con precisione entomologica la vita quotidiana e le speculazioni truffaldine del protagonista, iniettando in questa finissima descrizione d’ambiente qualche bizzarria, delle minime inquietudini, che, come i volatili lasciati cadere con noncuranza da Hitchcock nella prima parte – quella descrittiva – de Gli uccelli (1963), incitano al sospetto che qualcosa di torbido stia smuovendo la superficie del film. In tre diversi momenti un controcampo rotto da impedimenti visivi o uditivi interviene a frustrare il nostro desiderio di vedere, di conoscere, di organizzare in un ordine logico gli stimoli visivi lasciati cadere dal regista, intensificando il disagio da cui ci sentiamo investiti. Disagio che cresce ulteriormente nella seconda parte, quando un brusco cambio di registro immette il film nei territori orrorifici dell’home invasion, per poi sterzare nuovamente in direzione di un poliziesco coscientemente anti-adrenalinico, quasi un urban western, che unisce la durezza tonitruante di spari il cui sonoro sembra orchestrato dal miglior Michael Mann alla staticità insistita di Seventh Code (2013). È, forse, anche l’unico momento in cui il film parzialmente cede, non nella struttura, si badi, ché essa è granitica (come dimostra la straordinaria allegoria in epilogo, che chiude in cerchio l’opera come fosse una moralité del Cinquecento), ma nel rinunciare alla tensione precedentemente accumulata per inseguire la cronaca di una (forse eccessiva) resa dei conti annunciata. I fantasmi, fuoriusciti dalle loro tane digitali, invadono il mondo, si spandono tutt’intorno al loro centro di rabbia e violenza, investendo chiunque ne ostacoli il cammino. Corpi destituiti di ogni spirito vitale, li scopriamo aggirarsi tra noi con la goffaggine e l’inefficienza di novelli morti viventi, ma già pronti all’aggressione, alla carneficina.

Oltre gli account senza foto e dai nickname astrusi che popolano la rete, sembra ammonirci Kurosawa, si agita un corpo sociale reale, una comunità (dis)umana che si nutre della stessa violenza a cui inneggia con sadica ferocia in una moltitudine di post sgrammaticati. Il meccanismo che si ingenera è quanto mai miserevole: incapaci di discernere tra un luogo virtuale e uno reale, i nuovi fantasmi popolano l’uno di fantasie rabbiose per poi lasciarle scivolare inavvertitamente nell’altro, sino a farle vivere e dargli spazio. La catastrofe umana che Kurosawa ci descrive è ormai irredimibile e il rigore e la precisione delle inquadrature, che scandiscono la traiettoria di questo film come se scoccassero una freccia, destinano i personaggi – e in ultima analisi tutti noi – a un caos infernale, di cui la suggerita catabasi sul finale è una spietata, indimenticabile allegoria.

Matteo Pernini MCmagazine 96

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