Baby Girl

Halina Reijn

Una potente amministratrice delegata mette a repentaglio la carriera e la famiglia quando inizia una torrida relazione con un suo stagista molto più giovane.

USA 2024 (114′)

VENEZIA – Con Baby Girl, della regista olandese Halina Reijn, Nicole Kidman si è aggiudicata la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. È un riconoscimento per questa specifica performance, ma forse anche per il coraggio e la capacità di visione con cui l’attrice porta avanti la propria carriera, anche come produttrice, con un’attenzione particolare verso opere che cerchino di ampliare la rappresentazione dell’erotismo dal punto di vista femminile. E non è un caso che Presidente della Giuria fosse una delle più grandi attrici viventi, Isabelle Huppert, altrettanto coraggiosa e impegnata in questo senso. 

    Il film è presentato come un thriller erotico in cui Romy, una manager cinquantenne interpretata appunto da Nicole Kidman, ai vertici di una grande azienda, rischia di compromettere carriera e famiglia travolta dall’attrazione per un giovane stagista, Samuel (Harris Dickinson). Le aspettative create dalle parole di presentazione di Alberto Barbera erano alte, evidentemente molti si attendevano da queste premesse scene di sesso trasgressivo, ma (basta leggere le recensioni) sono rimasti vistosamente delusi. Il punto però è proprio questo: alla protagonista del film il sesso come ginnastica non basta. Lo fa regolarmente col piacente marito (Antonio Banderas), ma sulla soddisfazione che (non) prova si esprime chiaramente durante il film. Perchè quello che fa scattare in lei l’eccitazione è qualcosa di prettamente mentale, una situazione psicologica, un gioco delle parti, da cui dipende la differenza tra un’esperienza noiosa ed un travolgente. E gli uomini spesso sono sordi di fronte ai tentativi femminili di comunicare quanto sia importante il copione nell’erotismo: lo è sicuramente il marito della protagonista, che ironicamente di professione fa il regista teatrale. Comunque per Romy la svolta avviene quando, dopo anni di “solitudine”, trova qualcuno che sa cogliere al solo sguardo ciò di cui ha bisogno (a lei, abituata a comandare e controllare, piace ubbidire ed essere controllata) e quando al primo incontro lo vede ammansire con naturalezza un cane inferocito, il brivido che prova le è fatale.

Tutta la prima parte del film, in cui Nicole Kidman, con minimi slittamenti di sguardo e di postura, comunica riluttanti cedimenti e il progressivo avvicinamento tra i due, è senz’altro la più riuscita, anche per i tocchi di autoironia. Il film insiste non tanto sulla trasgressività della situazione, quanto sull’importanza per la protagonista di trovare qualcuno che sa giocare con lei, combinando complicità e fiducia: senza la prima il gioco non funziona, ma senza la seconda può trasformarsi in violenza. Concetto da chiarire bene, di questi tempi: e non a caso è soprattutto lui ad insistere sull’importanza del patto. L’età nel rapporto che si crea è irrilevante (infatti è Samuel che la chiama con tenerezza “babygirl”), ma lo è invece per le conseguenze a livello sociale: non solo lui è giovane, ma è anche un sottoposto di una potente manager. Questo rovesciamento della posizione di potere è una novità rispetto ad altre opere sullo stesso tema (pensiamo al classico Secretary in cui il dominante è il capo e la dominata appunto una segretaria) e costituisce l’altro filo conduttore del film: le donne e il potere, anzi le donne al potere.

Quando la situazione sia in famiglia che al lavoro sfugge di mano e tutto sembra precipitare il film si fa però più convenzionale, rinunciando a sondare fino in fondo le possibilità di queste particolari “affinità elettive”. L’evoluzione della vicenda diventa più ovvia e non basta il colpo di scena che porta alla soluzione finale per risollevare la seconda parte. Dall’autrice di Bodies Bodies Bodies ci si aspettava qualche unghiata in più.

Licia Miolo MCmagazine 96

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