Invention

Courtney Stephens

All’indomani della morte improvvisa del padre cospirazionista, la figlia eredita un suo brevetto per un farmaco sperimentale. Mostrando l’archivio del defunto padre di Callie Hernandez, Invention indaga il processo di elaborazione del lutto di un genitore complicato, e il film stesso diventa parte di questo processo.

USA 2024 (72′)

LOCARNODobbiamo alle giovani americane Callie Hernandez (già attrice affermata in La La Land e in altre produzioni “mainstream”) e all’amica Courtney Stephens, alla sua prima esperienza nel lungometraggio, il film più originale, spiazzante e allo stesso tempo profondo e divertente passato a Locarno quest’anno.

    Tratto, sembra, da elementi autobiografici, il film oscilla tra vari generi: in superficie, è una satira, in cui Carrie deve districarsi tra le mille incombenze burocratiche che sorgono in America alla morte di una persona cara: si passa dalla scelta dell’urna a quella della musica, alla decisione di vendere o meno la casa paterna. Tutto è molto americano e molto complicato per la malcapitata, che vorrebbe farla finita e ritirarsi a elaborare il suo lutto. Il “clou” si raggiunge con l’apertura del testamento: i debiti superano gli attivi, i creditori sono in agguato; denaro, quindi, non ne arriverà, sebbene il genitore fosse stato un uomo geniale e in certi momenti molto ricco. L’unica cosa che è stata lasciata alla figlia, e solo a lei, è il brevetto di uno strumento medico, l’invention del titolo, dalle possibilità non ben definite ma che secondo le parole del notaio potrebbe rivelarsi una panacea in grado di guarire qualsiasi malattia e rendere obsoleti tutti gli ultimi ritrovati di Big Pharma. Che fare? Venderlo? Trovare dei soci e svilupparlo?

Comincia così per Carrie il giro dei numerosi conoscenti, soci e amici del defunto. E sono incontri sempre diversi: c’è l’ex spasimante, il segretario detentore dei disegni, i tre soci del negozio di antiquariato gestito dal padre negli ultimi anni di vita. Il fatto è che tutti ci hanno rimesso dei soldi e ciononostante lo amavano e stimavano come un genio. Sì, perché il genitore – e lo vediamo in spezzoni di VHS d’epoca, molto divertenti – fin dagli anni ottanta andava ospite in varie trasmissioni televisive a mostrare e propagandare le proprie invenzioni. Dello strumento lasciato alla figlia, il cui prototipo ci viene mostrato come un cilindro luminescente fatto di tanti bastoncini rossi, nulla si scopre. Ora, a parte che già da qui l’invenzione si rivela in pratica come un mcguffin che tiene aperta la narrazione, ne esce il ritratto di un padre che, in ogni caso, era un genialoide con tendenze cospirazioniste (nessuno voleva riconoscere la bontà delle sue invenzioni) e anche di una certa America ingenua, disposta a dare fiducia a chi offre facili soluzioni. Dal punto di vista formale il film è un vulcano di trovate: siamo a metà strada tra un mistery e un film di fantascienza.

Oltre all’alternanza di vecchi spezzoni e scene attuali, la regista si diverte ad “abbattere la quarta parete”, coi tecnici che dialogano con gli attori, i rumori del backstage, la regista che discute con i suoi collaboratori, la frequente uscita della macchina da presa verso paesaggi nebbiosi o piovosi a suggerire qualche non spiegato mistero. Certo, siamo in un “micro (dura solo 73 minuti) american indie film”, ma che risultato! Nella scena finale, Carrie è assorta nella contemplazione del favoloso strumento: che fare?

Giovanni Martini MCmagazine 96

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