Wim Wenders racconta Anselm Kiefer, scultore tedesco, specializzato in lavori con cemento e acciaio. Attraverso le opere dell’artista, Wenders racconta anche la sua vita e su come la Germania in cui è cresciuto abbia influenzato la sua arte.
Germania 2023 (93′)
Wenders omaggia Kiefer: in questo documentario si conferma la buona mano del regista tedesco nel realizzare dei lungometraggi biografici, dedicati a grandi artisti. Come ne Il sale della terra, dedicato al fotografo Sebastião Salgado, o in Pina, un tributo a Pina Bausch e al teatrodanza, Wenders punta anche sul 3D per farci sentire in maniera quasi tattile la spettacolarità delle opere di Kiefer che, con le sue strane torri, i suoi cubi giganti e i suoi passaggi sotterranei, ha una forza già di per sé pienamente cinematografica. Questo film è sicuramente uno sguardo sulle sue opere più importanti ma anche sui suoi pensieri e sulla sua filosofia di vita: le parti più affascinanti sono quelle prive di parole, in cui seguiamo semplicemente Kiefer al lavoro, ma è ottimo anche il lavoro del regista tedesco sui materiali di repertorio, capaci di impreziosire la visione complessiva…
longtake.it
L‘altra faccia di Wim Wenders è un vertiginoso docu-trip (anche in 3D) che porta il cinema dove non era mai stato prima. Non sotto il vulcano ma dentro, nel magma e nel dolore della creazione di uno dei più grandi artisti contemporanei: Anselm Kiefer, classe 1945 – come il regista – cresciuto tra le macerie della Germania nel dopoguerra e impegnato fin da adolescente (Kiefer fu un artista precoce) a cercare un ordine in quel caos. A costo di riprodurlo, talvolta in scala 1:1, in opere gigantesche per strazio e per dimensioni. Come quella foresta sbilenca di torri svettanti su una piana fangosa che l’artista fissa ritto come il “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich, capolavoro del Romanticismo tedesco. Solo che ogni sogno ormai è svanito, ogni riscatto polverizzato non soltanto dalle colpe infinite del nazismo ma da ulteriori decenni di guerre e distruzione. Che Kiefer mima, reinventa, processa, nel senso legale e in quello informatico del termine, stendendo il passato recente e quello remoto sul tavolo anatomico di un’arte dipinta con la fiamma ossidrica, ma pronta a incorporare ogni forma della Natura o a farsi essa stessa paesaggio. Perché il mito, ricorda l’artista «permette di capire la Storia in modo non razionale». Dunque ecco Anselm pedalare nei suoi sterminati atelier (talvolta ricavati da fabbriche abbandonate), ecco le foreste innevate del dopoguerra percorse da bambini festosi, gli stessi che giocano tra le macerie delle città bombardate. Ecco gli equivoci che affliggono Kiefer negli anni 80, prima della consacrazione (perché quei “sieg heil”? Perché la divisa paterna della Wehrmacht?), alternarsi a versi di Paul Celan (anche letti dalla voce del poeta). O a una parentesi su Heidegger e le sue eterne contraddizioni. Mentre un bambino e un giovane adulto, figli o nipoti del regista e dell’artista, impersonano Kiefer in altre età della vita. Quasi a ricordarci che ogni ritratto è anche un autoritratto e che qui gli artisti sono due: come nel memorabile Pina, sulla Bausch (a differenza che ne Il sale della terra, dove Wenders si metteva al servizio di Salgado). E se quando un giovane Kiefer parte sul suo maggiolino carico di tele per andare da Joseph Beuys è impossibile non pensare a Nel corso del tempo, quel cavo teso in 3D sopra le macerie su cui Kiefer avanza come un funambolo è grande, puro, sfacciatissimo cinema. La più grande macchina mai inventata per vedere ciò che può sfuggire a occhio nudo. Arte non esclusa.
Fabio Ferzetti – lespresso.it
“Tutti coloro che cadono hanno le ali”. Ma l’Anselm Kiefer di Wim Wenders, funambolo con le sue acrobazie allegoriche in un documentario mosso e illuminante, ci solleva dalle macerie della storia per trasformare le nostre ali di piombo in piume di paglia, cenere, argilla, gommalacca, elevandoci ora ad assistenti del maestro, all’interno dei suoi atelier, ora guidandoci tra gli straordinari linguaggi di un gigante dell’arte. E se veramente “il linguaggio è la casa dell’essere” l’omaggio di Wenders ai linguaggi del genio – accusato da molti di mettere il dito nella piaga in quello che è stato l’incubo della Germania nazista – è davvero un grandioso contributo alla conoscenza umana e artistica di questo sacerdote del mito. Perché la mitologia, insieme all’arte, ha costituito per Kiefer un’altra forma di conoscenza, capace di fornire risposte alle domande che l’uomo si pone da sempre. Rivolgendosi a un pubblico ampio, e non soltanto di esperti d’arte o addetti ai lavori, Wenders lascia Tokyo e Hirayama, l’affascinante Kôji Yakusho, silenzioso protagonista del riuscitissimo Perfect Days, per consegnare al cinema uno dei più innovativi e importanti artisti del nostro tempo, protagonista di Anselm. Dopo aver viaggiato per oltre due anni sulle tracce di Kiefer, dalla nativa Germania fino alla sua attuale casa in Francia, il regista ripercorre le tappe di un itinerario dietro le quinte della sua arte dove letteratura, scienza, filosofia, mitologia, religione si incontrano. Girato in 3D e risoluzione 6K, il film (…) segue il percorso di vita del pittore e scultore tedesco, la sua visione, lo stile rivoluzionario, il potente lavoro di esplorazione dell’esistenza umana e della natura ciclica della storia. Ritroviamo Kiefer nel suo atelier di Croissy-Beaubourg, in Francia, mentre gironzola in bicicletta, tra le sue opere monumentali dando istruzioni ai suoi assistenti. Lo seguiamo di notte mentre affronta un quadro a colpi di spatola, immersa ora nel bianco ora nel nero, o mentre dipinge con lanci di fuoco. Conosciamo i miti, come quello degli Argonauti, che lo hanno incantato e ossessionato, lo ritroviamo in giro per l’Europa, da giovane, con il braccio destro teso, a fare il Sieg Heil, il saluto nazista mentre indossa l’uniforme da ufficiale della Wehrmacht del padre. “Cosa provi quando ti chiedono se sei un neonazista?” Chiede nel film un giornalista. Chi è davvero Kiefer? Un artista spregiudicato che ha messo a disagio la critica toccando tasti troppo dolenti e affrontando il passato della Germania attraverso i suoi lavori o un maestro intrepido che infrange i tabù trasformando un prato schiacciato da un carro armato in un paesaggio di una bellezza straziante denso di pathos e magia? Forse “un bandito in perenne cammino”, come lo stesso artista si definisce, eterno bambino tra girasoli e notti stellate.
Samantha De Martin – arte.it