Hirayama è un uomo umile che lavora come addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo. Oltre alla sua routine lavorativa, Hirayama riesce a coltivare ogni giorno le sue passioni: la musica, i libri, la fotografia e gli alberi. Ed è attraverso le sue fotografie, le sue letture e i suoi ascolti, che si rivela la sua sensibilità nei confronti dell’arte e del mondo che lo circonda.
Giappone/Germania 2023 (123′)
CANNES 76°: miglior interprete maschile
Da quanto tempo Wim Wenders non ci conquistava con un bel film? Documentari molti, ma una fiction degna di memoria mancava da tempo. Fino a ieri: Perfect Days (Giorni perfetti) è un piccolo gioiellino, piccolo nel formato (quello classico, «quadrato», dei film di una volta) ma grande nell’emozione e nella riuscita. Racconta la vita quotidiana di un cinquantenne (Koji Yakusho, da Palma) che pulisce le toilette pubbliche di Tokyo. Una vita metodica, scandita da azioni sempre uguali: il rituale della sveglia, poi il lavoro che svolge con una attenzione ai limiti del maniacale (le toilette in Giappone sembrano dei piccoli templi), il pranzo sulla stessa panchina, la doccia in un bagno pubblico (a casa ha solo un lavabo), la cena in un bar dove non deve nemmeno ordinare (prende sempre le stesse cose), un libro prima di addormentarsi (lo vediamo leggere anche un volume di William Faulkner) per poi ricominciare la mattina dopo. Solo nei trasferimenti sul suo mini-van ultra attrezzato ascolta vecchi nastri anni 60 e 70, dagli Animals a Van Morrison a Lou Reed. Parole quasi nessuna (nemmeno con il suo collaboratore decisamente poco professionale), solo qualche fotografia di rami che si stagliano sul cielo. L’ingresso in scena di qualche persona (come la nipote che sembra essere «fuggita» dalla madre) e i sogni che sembrano lavorare sui suoi ricordi finiscono per ribadire (per antifrasi) la ripetitività su cui ha costruito la vita, capace di dare una forma a quella pace interiore che non è rinuncia né moderazione ma piuttosto una silenziosa forma di empatia universale. Perché ha scelto quella vita? Perché la sorella è molto più ricca di lui? Perché non vuole vedere il padre? Il film non dà risposte. Vuole solo invitarci a guardare come la felicità può essere anche la cancellazione dei desideri.
Paolo Mereghetti – corriere.it
Wim Wenders torna in Giappone per dare vita a un nuovo omaggio alla sua grande passione per il cinema nipponico e per Yasujiro Ozu in particolare. Lo spirito dell’autore di Viaggio a Tokyo, a cui Wenders aveva dedicato Tokyo-Ga del 1985, si sente decisamente tanto in questa pellicola che si concentra su ogni dettaglio in maniera meticolosa: il film è girato esattamente come se stesse creando un parallelismo con il comportamento, minimale e attento a tutto, del suo protagonista. È indubbiamente un inno al cercare le cose belle nel quotidiano, Perfect Days, film che anche un po’ banalmente porta avanti questo concetto dall’inizio alla fine, dando ampio spazio anche all’importanza dell’arte nella vita di tutti i giorni. Nonostante sia un piccolo film, anche piuttosto ripetitivo nelle sue riflessioni, allo stesso tempo però è un lungometraggio dal cuore grande, capace di toccare corde emotive profonde e di colpire per il tocco delicato e appassionato allo stesso tempo con cui Wenders l’ha realizzato. Erano ormai tanti anni che il regista tedesco non realizzava un film di finzione così riuscito, ma il merito va anche all’ottima prova di Koji Yakusho (premiato come miglior interprete maschile al Festival di Cannes), eccellente nei panni di un uomo silenzioso a cui basta un raggio di sole tra gli alberi per regalare un sorriso a chi lo circonda.
longtake.it
Non tutti i grandi registi sono sensibili all’arte altrui. Wim Wenders sì, come ha dimostrato più volte (i Buena Vista Social Club, Pina Bausch, Salgado, Anselm Kiefer). Anche Perfect Days nasce da una proposta esterna: girare diversi corti sulle toilettes di Tokyo, capolavori di architettura oltre che monumenti alla filosofia di vita giapponese. Ma perché invece dei corti non fare un film? Detto fatto: ecco un protagonista potente, una storia tenuta sotto traccia e un film che procede per piccole epifanie, o – come dicono i giapponesi – “komorebi”. Il sorridente Hirayama (Koji Yakusho, palma come miglior attore a Cannes), casa semplice ma impeccabile, ogni mattina si alza, piega il materasso, bagna le piante e va al lavoro ascoltando capolavori anni 60-70 (Lou Reed, Patti Smith, Otis Redding, Nina Simone, i Kinks…), rigorosamente su cassetta. Un lavoro che altri troverebbero umiliante ma per lui è un’arte. La pulizia dei bagni pubblici. Secchio, stracci e attrezzi fabbricati in parte da sé, Hirayama lava, lustra, strofina, con tanto di specchietto per gli angoli nascosti. Nessuno sembra rendergliene merito, non il giovane collega lavativo né i clienti di quei luoghi più simili a templi che a toilettes. Ma Hirayama non ci fa caso. Per lui conta altro, la luce che danza tra i rami, il germoglio che brilla sotto un albero, quel senzatetto che nessuno sembra vedere. Naturalmente un’esistenza così monacale nasconde qualcosa cui Wenders saggiamente accenna appena, preferendo giocare su variazioni di luoghi, incontri, momenti, per mostrare quanta libertà e quanto amore celi una vita a prima vista così limitata. E lo splendore del film, che perde smalto appena “racconta” troppo, sta proprio nel nitore dei gesti, nel ritmo delle ripetizioni, nella grazia con cui Wenders estrae dall’ombra luci, voci, apparizioni perse nel flusso incessante della metropoli. Che poi è un modo per trasformare il tempo in spazio e viceversa, come ha sempre fatto. Oggi, del resto, nulla è più sacro del lavoro manuale. Wenders non è il primo a ricordarcelo. Né l’ultimo.
Fabio Ferzetti – espresso.it