Foglie al vento

Aki Kaurismäki

Un uomo e una donna, una notte a Helsinki. I due hanno vite difficili segnate dal disagio e dalla precarietà, ma il loro incontro sarà l’inizio di una storia che li aiuterà ad amare di nuovo.

Kuolleet Lehdet – Fallen Leaves
Finlandia 2023 (81′)
CANNES 76°: Premio della Giuria

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 Sei anni dopo il bellissimo L’altro volto della speranza (2017), Aki Kaurismäki torna dietro la macchina da presa per raccontare una storia intrisa di tutti quegli ingredienti che hanno reso così unico il suo cinema: dal raccontare tutta la poesia che può stare anche nei luoghi considerati più degradati dalla società, passando per la sua ironia velata di malinconia. È una nuova tragicomica storia d’amore quella che racconta l’autore finlandese in una Helsinki tormentata dalle continue notizie radiofoniche sull’invasione russa in Ucraina. Quarto capitolo di film dedicati al tema del proletariato da Kaurismäki, dopo Ombre nel paradiso (1986), Ariel (1988) e La fiammiferaia (1990), Fallen Leaves ragiona sul mondo del lavoro, ma soprattutto su due solitudini che vanno (casualmente?) a incrociarsi, all’interno di una cornice narrativa di forte coinvolgimento che ci porta subito a tifare per il loro, possibile amore. Giocando con le luci e con le ombre, il regista finlandese raggiunge l’apice della sua essenzialità e del suo minimalismo stilistico, richiamando ancora una volta la pittura di Edward Hopper e stando sempre molto attento al rapporto tra i personaggi inquadrati e l’ambiente circostante. In una pellicola che rende molto espliciti i suoi messaggi, sono altrettanto chiare le citazioni e gli omaggi alla Settima arte: dall’amico Jim Jarmusch, richiamato con la proiezione in una sala de I morti non muoiono, a Robert Bresson (maestro di quel minimalismo di cui Kaurismäki è uno dei grandi discepoli) e Jean-Luc Godard, fino a un meraviglioso, doppio richiamo finale all’amatissimo Charlie Chaplin. Anche per la “presenza” di questi nomi, le emozioni sono tantissime in un film in cui si ride e si piange, ci si lascia e ci si innamora. La povertà, la disoccupazione, le notizie della guerra: tutto sembra portarci verso il baratro, ma Kaurismäki ci ricorda che la soluzione è nella compassione, nel contatto, nell’amore. Per altri esseri umani, indubbiamente, ma anche per il cinema.

longtake.it

  In 40 anni e 18 titoli il finlandese Aki Kaurismäki ha aggiunto alla mappa del cinema mondiale un paese di cui non possiamo più fare a meno: la Kaurismäkia. Chi conosce i film di questo 66enne massiccio, gran bevitore, capace di usare musiche e colori come nessuno, sa di cosa parliamo. Per riconoscere un suo film infatti basta un momento. Atmosfere sospese, dialoghi surreali, personaggi stretti fra l’urgenza dei sentimenti e l’esigenza di nasconderli, uno sguardo sempre puntato sul mondo del lavoro ei suoi ricatti, svolte narrative cosi basiche e universali da far arrossire i sacerdoti dello storytelling: due solitudini che si incontrano, un’unione che sboccia, l’imprevisto in agguato, la lotta con i propri dèmoni, oltre – naturalmente – alla forza dell’amore. Il tutto mentre la radio trasmette atrocità come il bombardamento dell’ospedale pediatrico di Mariupol. E i supermercati, per ricordarci in che mondo viviamo, distruggono il cibo scaduto anziché riciclarlo. Ricavare da tutto questo un film capace di farci ridere e palpitare esige un’arte suprema. Quella di Kaurismäki passa per il modo stregonesco con cui armonizza i colori più folli e per un’attenzione all’implicito che estrae meraviglie da una frase a metà o da uno sguardo che dura più (o meno) del previsto. Ma non prendiamoci in giro: tutto questo sentimento sarebbe solo sentimentalismo se non si fondesse magicamente con un umorismo impassibile e micidiale. Solo Kaurismäki infatti può prendere in giro e insieme rendere omaggio al suo amico Jim Jarmusch e ai suoi idoli Godard e Bresson in due scene e tre battute. Solo questo pronipote boreale di Chaplin sa farci ridere a crepapelle inserendone uno e un solo movimento rapidissimo in un film tutto tempi dilatati (succede al karaoke). Solo un fan di Olavi Virta, il re del tango finlandese (che qui canta anche «Mambo italiano») potrebbe mixare con tanta felicità Schubert, Gardel e gli Hurriganes, gruppo rock finnico popolarissimo negli anni 70. Se lo volessimo davvero, insomma, dovremmo anche essere felice. Se non in Finlandia. almeno In Kaurismäkia.i.

Fabio Ferzetti – lespresso.it

  Avviso ai naviganti. Chi conosce Aki Kaurismäki troverà in questo ultimo Foglie al vento un distillato purissimo del suo cinema: silenzi che parlano più di mille parole, sguardi in macchina che interrogano lo spettatore, il peso di un destino che finisce sempre per umiliare i deboli. Chi invece non ha mai visto i film di questo regista finlandese, non potrebbe avere a disposizione viatico migliore per avvicinarsi a un cinema che non assomiglia a nessun altro, costruito intorno all’(«idea dell’essenzialità less is more», meno è meglio potrebbe essere il suo motto, senza che questo voglia dire cadere nella banalità o, peggio, nella superficialità), capace di commuoverti ma anche di far ridere e divertire evitando però i dilemmi e le scene-madri tipiche del melodramma cinematografico. Gli «eroi» di questa storia d’amore e di solitudine (81 minuti di pura gioia, alla faccia dei teorici dello storytelling!) sono Ansa (Alma Pöysti) e Holappa (Jussi Vatanen). Lei lavora in un supermercato, ma un giorno che con la sua amica Liisa (Nuppu Koivu) vorrebbe portarsi a casa un prodotto scaduto viene licenziata su due piedi. Holappa lavora in una scassata fabbrica metalmeccanica: il collega Raunio (Martti Suosalo) lo convince a passare una sera in un locale di karaoke dove incrociano le due amiche. Niente parole, solo sguardi ma si capisce che tra Ansa e Holappa si è acceso qualcosa. Quando si rincontrano, lui la porta al cinema (a vedere I morti non muoiono, surreale storia di zombie che due spettatori commentano come solo in un film di Kaurismäki capita di sentire) e lei gli dà il suo numero di telefono, ma lui perde il foglietto, dando inizio a una serie di equivoci e di confusioni che sembrano non doversi mai fermare. Complicazioni che si mescolano alle disavventure lavorative: lei trova un posto in un bar ma proprio il giorno della prima paga il padrone viene arrestato, lui si ferisce per colpa di un attrezzo obsoleto ma l’infermiere deve fargli anche l’alcoltest e il padrone lo licenzia come un ubriacone. E mentre alla radio si sentono solo notizie di morte sulla guerra in Ucraina, Ansa e Holappa cercano di fare i conti con i propri fantasmi (lei ha avuto un padre alcolizzato e una madre che ne è morta di crepacuore per cui non vuole mettersi con un beone; lui non vuole rinunciare a quella che sembra la sua sola consolazione, la bottiglia appunto), passano da un lavoro all’altro e intanto si cercano, si trovano e si perdono. Tutto con pochissime parole, con la macchina da presa che scava dentro volti dove basta un battito di ciglia per capire quello che si agita nei cuori, mentre il mondo tutt’intorno sembra insensibile e il destino continua a infierire. Ci si mette persino un tram a fermare Holappa…

 

Com’è cambiato il mondo di Kaurismäki! I due ultimi suoi film, Miracolo a Le Havre e L’altro volto della speranza, non nascondevano drammi e storture della società ma erano illuminati alla fine da un raggio di sole che faceva vincere il sogno e la speranza invece della disperazione. Qui basterebbero gli ossessivi rendiconti di uccisioni e bombardamenti in Ucraina per far capire che quel po’ di luce sembra sparito per sempre. Eppure… Eppure Kaurismäki riesce, nonostante tutto, a trovare un’ancora di salvezza e di speranza, e la trova nel cinema e nella musica. Cioè nell’arte. Mentre ci passano davanti agli occhi i colpi bassi del destino che sembrano voler impedire l’amore tra Ansa e Holappa, ecco che la serenata di Schubert e Gardel che canta il tango «Arrabal amargo», la sesta sinfonia di Caikovskij e «Mambo italiano» eseguita in finlandese da Olavi Virta, così come «Les feuilles mortes» che, sempre in finlandese, chiude il film (il cui titolo originale è anche quello della traduzione finnica della canzone: Kuolleet Lehdet), ci ricordano che qualche sprazzo di bellezza esiste ancora. Così come fa il cinema, i cui manifesti colorano le pareti di bar e locali, a cominciare da quello di Breve incontro davanti a cui Ansa e Holappa capiscono di amarsi per ritrovarsi infine nel nome di Chaplin incamminati verso chissà quale futuro.

Paolo Mereghetti – corriere.it

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