Anni ’80. Di ritorno in una piccola città sul mar Tirreno, l’archeologo britannico Arthur (John O’Connor) ritrova la sua sciagurata banda di tombaroli, ladri di corredi etruschi e di meraviglie archeologiche. Arthur ha però un dono che mette al servizio della banda: sente il vuoto, in particolare quello della terra nella quale si trovano le vestigia di un mondo passato. Lo stesso vuoto che ha lasciato in lui il ricordo del suo amore perduto, Beniamina. Ed è così che la chimera, inseguita con tanta fatica e di ardua cattura, diventa un sogno agognato e difficile da raggiungere, come un guadagno facile o la ricerca dell’amore ideale.
Italia/Svizzera/Francia 2023 (134′)
Sia detto senza retorica, alla fine della visione di La chimera si prova un sentimento di gratitudine per Alice Rohrwacher e per il film con cui chiude la trilogia dedicata alla memoria, perché è un’opera di denuncia, ma anche di pace. Un intenso e radicale viaggio interiore, ma con l’immediatezza, la semplicità e la verità di un filmato di famiglia. E riesce, dopo tanti film diretti da uomini con al centro notevoli personaggi femminili, a regalarci uno dei più bei personaggi maschili degli ultimi anni. Soprattutto uno dei più originali e imprevedibili. E utopici, in qualche modo. Arthur (Josh O’Connor) è un ragazzo che parla inglese e forse è britannico, o irlandese. Si resta volutamente nell’incertezza. È comunemente chiamato “lo straniero”. Parola usata in maniera diffusa per definire chiunque non sia del posto, ma utile anche a sottolineare la sua dimensione “altra”, di estraneo anche se partecipe, in parte alieno. Scorbutico, dagli scatti d’ira improvvisi, dolce e osservatore, a tratti filosofo, sorta di Orfeo alla ricerca di Euridice – L’Orfeo di Monteverdi scandisce i capitoli del film – sembra mosso da un oscuro abitatore interno che lo porta alla ricerca di qualcosa, da un insopprimibile languore amoroso per un ricordo di una purezza vera e delicata, da una nostalgia pervasiva, insopprimibile: quasi un’arcaica, antica e dolce tristezza, che è allo stesso tempo una consapevolezza sulla verità delle cose. Certo, poi ci sono gli aspetti pratici, di vita concreti, non indifferenti, che pesano sul suo comportamento, come il fatto che, abbandonato dalla sua banda di tombaroli, ha passato un periodo in carcere. Ora è tornato, un ritorno sui luoghi che non sono i suoi luoghi d’origine eppure, forse, lo sono sempre stati. Notevole il longilineo O’Connor, alto due metri: incarna un eroe magro, quasi disincarnato, che mangia poco, e si cambia poco, come se, al di là delle apparenze, e a differenza degli altri, fosse in verità estraneo alle cose terrene. Come se fosse già altrove, e in qualche modo conoscesse la sua destinazione ultima. Un po’ tra i due mondi, e tra i mondi in generale. Sempre sulla soglia, forse addirittura anche sulla soglia di una sorta di al di là. Sempre tra il concreto e l’etereo. Il suo aspetto fisico lo trasmette: potrebbe essere un ragazzo delle periferie inglesi, ma i suoi tratti, il suo modo d’essere, potrebbero essere anche quelli di un giovane partenopeo.
Il film è la limpida rivelazione di un notevole volto, così come di un interprete che lascia il segno. Arthur e la sua banda di tombaroli – che rispetto a lui sono inconsapevoli, ma a loro modo autentici – vivono rubando oggetti antichi dalle tombe, aggirando i carabinieri, e rivendendoli sul mercato ufficiale dell’arte, ai collezionisti privati ma anche a funzionari del circuito museale. Arthur si rifugia spesso nella grande e decadente casa di Flora (Isabella Rossellini). Flora è la madre di Beniamina, la ragazza che morendo ha spezzato il cuore del protagonista, e che è la chimera principale del film, filo d’Arianna che tiene tutto, fin dal prologo. Nel tesserlo, la regista compie un’esplorazione del mondo attraverso l’ibridazione d’immagini dal registro eterogeneo, anche opposto, e tuttavia in grado di amalgamare tutto con sapienza. Bellissimo questo film di poesia, sensoriale, avvolgente, che fa sentire gli odori della natura, il verde intenso come se fosse muschio sulla roccia, l’umidità della terra, scorci di villaggio, baraccopoli arcaiche, bellissime stazioni ferroviarie abbandonate. E lo fa ibridando e poi unendo i formati, il 35 millimetri, il super 16 millimetri e il 16 millimetri: tutto è realtà, tutto è cinema, l’estetica naturalistica così come il video amatoriale, o la fotografia che si fa pastello, pittura, affresco.
Francesco Boille – internazionale.it
A quattro anni di distanza dal suo ultimo film Lazzaro felice, premio per la miglior sceneggiatura a Cannes nel 2018, la regista toscana Alice Rohrwacher firma un lungometraggio esplicitamente sospeso tra la vita di un pugno di personaggi erranti, per i quali la dimensione della vita cittadina è evidentemente fusa a quella boschiva, e un sottosuolo carico di misteri e tesori da scoprire, come a suggerire un costante dialogo tra i vivi e morti. La sceneggiatura, firmata dalla stessa cineasta, si muove come di consueto per il suo cinema in maniera molto libera e sregolata, tallonando una famiglia cinematografica evocata con stile quasi semi-documentaristico, nel quale le persone e i personaggi si confondono (o almeno quella è l’impressione che il calore discreto dell’approccio suggerisce) e la ricerca della Chimera del titolo assume un chiaro e paradigmatico valore simbolico. La vicenda narrata, incentrata sul traffico clandestino di manufatti storici e sul mercato nero di reperti storici preziosi rubati dalle tombe duranti gli scavi, è solo il punto di partenza per un viaggio affettuoso e bislacco nelle pieghe di un passato abitato da una certa dose di poesia e malinconia ma a tratti anche disincantato, nel quale viene lasciata molta libertà allo spettatore di trovare spunti e suggestioni all’interno del racconto e di accedere a una zona remota della propria immaginazione. La chimera è, per molti versi, l’opera in assoluto più carica di fascino, ambizione e mistero della carriera da regista di Rohrwacher, che, come già in Lazzaro felice, fa propria la lezione di Ermanno Olmi, nell’osservazione del rapporto tra individui e natura, concedendosi anche qualche più sparuto ma più rabberciato eco felliniano nel dar vita a un famiglia circense, che potrebbe essere uscita da una fiaba antica e universale.
I tanti riferimenti alla cultura etrusca, popolo che aveva una particolare attenzione alla rilevanza filosofica e mistica della morte per l’essere umano e ai riti di passaggio dall’esistenza terrena all’Oltretomba, permettono a La chimera di inserirsi in una cornice di grande suggestione capace di intercettare anche il femminismo, visto che nella società etrusca le donne avevano una rilevanza maggiore sociale che in quella greca e latina e non erano confinate soltanto alle attività domestiche. Alba Rohrwacher, sorella della regista, compare in un piccolo ma significativo ruolo che evoca proprio quest’ultimo aspetto attraverso gli strumenti dell’arte antica, mentre a impreziosire il cast internazionale ci sono l’attore britannico Josh O’Connor, interprete di Carlo d’Inghilterra nella serie The Crown e non sempre a fuoco nei panni del protagonista, l’attrice brasiliana Carol Duarte nel ruolo di Italia, ben più efficace, e Isabella Rossellini in quello di Flora. Yile Vianello, interprete di Beniamina, amore perduto di Arthur, era la protagonista dell’opera prima della regista, Corpo celeste (2011). Presentato in Concorso al Festival di Cannes 2023.
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