Anatomia di una caduta

Justine Triet

In una zona remota delle Alpi francesi, Sandra, una scrittrice tedesca, vive in uno chalet di montagna con il marito Samuel e il figlio undicenne Daniel, ipovedente. Un giorno Samuel viene trovato morto, immerso nella neve davanti a casa sua: gli inquirenti sospettano che possa non trattarsi di suicidio e decidono di indagare, finendo per incriminare la moglie dell’uomo.

Anatomie d’une chute
Francia 2023 (150′)
CANNES 76°: Palma d’oro

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  Un corpo che cade, il corpo del padre. Un bambino che quasi non ci vede, ma è il primo a trovare il padre caduto dal secondo piano della loro baita sulle Alpi francesi. Una madre sospettata. Tedesca. Scrittrice nota e stimata, sposata a quell’uomo con cui parlava per lo più inglese, non avendo mai imparato bene il francese. La polizia indaga. La fine di Samuel (Samuel Theis) è un mistero. Tracce ematiche e perizie sembrano escludere il suicidio. Ma anche un delitto è improbabile. Lo ha buttato giù la moglie? Come potrebbe esserci riuscita? Insomma come è morto Samuel – o meglio perché? A passare dal come al perché, in una delle scene più belle di un film implacabile e magistrale, è il vero protagonista di Anatomia di una caduta, la palma d’oro meno contestata negli ultimi decenni a Cannes. Un film di fattura arciclassica ma teso allo spasimo, che forse non cambierà la storia del cinema ma acuisce fino all’insopportabile la percezione dei rapporti di coppia. Anatomia di una coppia. Sul lettino dell’autopsia non c’è solo Samuel, c’è anche Sandra (Sandra Hüller, monumentale), autrice di libri rischiosamente in bilico tra invenzione e verità. E anche, suo malgrado, Daniel (Milo Machado Grener), il figlio di circa dieci anni che a quattro ha quasi perso la vista in un incidente. Sono le coppie insomma a essere in caduta libera. Anche la vecchia coppia finzione/realtà infatti non ne esce tanto bene. Perché Sandra non era la sola a scrivere. Anche Samuel aveva quest’ambizione, frustrata. È qui la chiave. Dove finisce la vita e inizia la creazione? Che diritti ha la seconda sulla prima, a che prezzo? Come sia andata davvero non lo sapremo mai, ma il film lo insinua con mezzi squisitamente cinematografici. Ombre, inquadrature, momenti laterali. Poi c’è quel critico letterario che cita di sfuggita, in tv, un’intervista di Sandra: «Il mio lavoro è coprire le tracce perché la finzione cancelli la realtà…». Dettaglio chiave: a interpretarlo è Arthur Harari, coautore del film e compagno di Justine Triet, la regista. Ingmar Bergman, da qualche parte, sorride.

Fabio Ferzetti – espresso.it

  Parte subito fortissimo Anatomia di una caduta, quarto lungometraggio della regista francese Justine Triet, che ci mostra in pochi minuti quali saranno i due snodi fondamentali dell’intera vicenda: il rapporto tra realtà e finzione, esplicitamente evocato, e gli screzi tra marito e moglie. Quest’ultima sta facendo un’intervista con una studentessa, ma il marito dal piano di sopra alza talmente tanto la musica da rendere impossibile la conversazione tra le due. Pochi minuti dopo, la tragedia che darà il via all’indagine. Scritto dalla regista insieme ad Arthur Harari, è un film dal copione solido e avvincente, nonostante l’eccessivamente lunga durata (circa 150 minuti) limiti a tratti il coinvolgimento. Durante il processo, quando la donna viene interrogata sulla sua relazione con il marito, mentre viene a galla il ritratto di un rapporto difficile e tormentato, ci sono però i passaggi più intensi, a partire da un potentissimo flashback che noi spettatori vediamo, mentre in tribunale viene “soltanto” ascoltato tramite una registrazione. Triet costruisce bene i personaggi, dando anche grande attenzione al figlio Daniel, che alcuni anni prima ha subito un incidente che l’ha privato della vista e che ha portato la coppia a una crisi perdurata poi nel tempo. Costretto ad assistere al processo, Daniel vive un profondo conflitto interiore che sarà uno degli snodi principali della vicenda. Alcuni passaggi possono risultare eccessivamente studiati a tavolino, ma il disegno d’insieme risulta sempre credibile e non forzato, nonostante qualche momento un po’ troppo convenzionale. Tra i tanti pregi di un’operazione comunque pienamente riuscita, una menzione speciale va alla straordinaria performance di Sandra Hüller in uno dei ruoli più intensi e significativi della sua carriera.

longtake.it

 Arriva in sala un film sorprendente, appassionante e femminista, ma anche sfaccettato e pieno di colpi di scena come un thriller hitchcockiano, di cui in qualche modo porta con sé la precisione di regia e l’eleganza formale. Anatomia di una caduta della francese Justine Triet, Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes e campione d’incassi in patria, è allo stesso tempo un film giallo, intimista e processuale. Un’opera di alto livello sull’ambiguità del reale, intrisa però di uno sguardo e di un vero sentire umano. Una musica trascinante risuona nel salotto di uno chalet di montagna, immerso nelle nevi. Sembra l’inizio di una commedia divertente e piena di ritmo, ma la musica si arresta bruscamente, come un colpo d’ascia che cade netto sul legno. Un uomo precipita dall’alto e muore. Un ragazzo cieco è in giro con il suo cane poco lontano. Una donna, moglie dell’uomo precipitato e madre del ragazzo, si trova improvvisamente vedova, travolta dal dolore. Ma troppe cose non tornano e la donna finisce sotto processo, devastata due volte (…)

 La cinematografia passata di Justine Triet si espone a qualche riserva, malgrado l’indubbia simpatia che ispira la regista. Le sue commedie ben confezionate sembrano espressione di una parte consistente dell’ambiente cinematografico, non solo francese, ormai completamente lontano dall’interclassismo, dalla critica alla società in generale e a quella borghese in particolare. Distante, soprattutto, dalle preoccupazioni quotidiane di tanti ragazzi. È invece un mondo concentratissimo su di sé, indulgente e un po’ compiaciuto delle proprie piccole nevrosi, mentre il mondo vive un momento di grande crisi. Se si pensa al tasso di critica alla borghesia nelle filmografie di Buñuel, Bergman o Chabrol, per citarne alcuni, si ha un’idea del contrasto tra molto cinema di ieri e di oggi. Detto questo, dev’essere chiaro che siamo davanti a un grande film, di notevole finezza e forza, e che se, per l’ennesima volta, la rappresentazione è concentrata sulle problematiche della borghesia, c’è tuttavia il coraggio di virare con nettezza in favore dell’ambiguità delle cose. Il bello è che lo fa in una prospettiva femminista, quella sì senza ambiguità. Riuscendoci, nella sua dimensione più esplicitamente militante, anche molto bene. Ma che si voglia femminista senza ambiguità, è ancora apparenza. E anche per questo raggiunge una dimensione universale. Riesce perfino a dire qualcosa di nuovo e profondo sul solito tema della finzione che si fonde con il reale. La protagonista è infatti una nota scrittrice che sbandiera il suo lavoro incentrato sull’autofiction. L’intreccio si fa qui a tal punto inestricabile da diventare non solo una sorta di specchio del reale e della finzione, ma una moltiplicazione di specchi più piccoli tra quelli principali, la madre e il figlio, dove una pallina – cioè la quasi inafferrabile interpretazione corretta del reale – rimbalza, svelando in modo continuo e misterioso nuove sfaccettature, quasi infinite.

Francesco Boille – internazionale.it

A fare l’ossatura del film che ha vinto la Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes sono le domande e le risposte: infatti, le due ore e mezzo che seguono il breve prologo sono in larghissima parte dedicate al processo che vede una scrittrice di successo (l’ottima Sandra Hüller) accusata di aver ucciso il marito precipitandolo dal balcone di casa (da cui il titolo del film che analizza in ogni sua possibile variazione la meccanica che ha portato alla morte dell’uomo). A condurre il gioco, forse con una punta eccessiva di sadico compiacimento persecutorio, l’avvocato dell’accusa che fa di tutto – colpi bassi compresi – per dimostrarne la colpevolezza che naturalmente il difensore della donna cerca di smontare. Più che il meccanismo giallo però, qui conta lo scavo nel rapporto di coppia, nei sensi di colpa dell’uno verso l’altra, nella presenza di un figlio che ha perso la vista per “colpa” del padre: una messa a nudo dei tanti nodi che si nascondono dietro la convivenza e che la Triet (che ha scritto la sceneggiatura con Arthur Harari) sa illuminare soprattutto con una ottima direzione d’attori. Insieme alla non nascosta volontà di smontare certi luoghi comuni antifemministi.

Paolo Mereghetti – iodonna.it

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