Memory

Michel Franco

Messico/USA 2023 (100’)
VENEZIA 8O° – Coppa Volpi miglior interpretazione maschile

 VENEZIA – Immancabile, arriva anche quest’anno alla Mostra del Cinema di Venezia un nuovo film di Michel Franco, che dai tempi del deplorevole Nuevo Orden (2020) – inopinato Gran Premio della Giuria – sembra ormai aver stretto un sodalizio in odor di fraternità con il festival lagunare, il quale, dal canto suo, ha contribuito, riservando metodicamente uno spazio in concorso alle sue operette, a divulgarne il lavoro ben oltre i confini delle americhe. Non nascondiamo una certa perplessità di fronte a questa intesa, dal momento che, di prova in prova, il cinema di Franco ha mostrato tutti i limiti di una immaginazione programmatica e priva di ispirazione, in cui ai personaggi si sostituiscono marionette isteriche, disperate o depravate, sulle quali il regista si getta col cinismo bieco di un Mangiafuoco crapulone.

  Date le premesse, si intende quanto basso fosse il morale di chi scrive innanzi alla prospettiva di un’ora e quaranta – ecco, l’unico merito del suo cinema: la brevità, in tempo di opere che eccedono sistematicamente il minutaggio che sarebbe loro più consono – delle consuete violenze fisiche e psicologie abbrutite. Si può, dunque, immaginare il nostro stupore, al termine della proiezione, nello scoprire di aver assistito a una storia d’amore. E nemmeno una storiella di smagato sentimentalismo, ma una narrazione articolata, fatta di personaggi a tratti respingenti, ma a cui sentiamo di voler bene per le loro fragilità, per gli sforzi coi quali cercano di coronare disperatamente un sogno di reciproca completezza. L’impressione è la medesima che avremmo avuto se Erode avesse aperto un asilo infantile. Anziché i soliti protagonisti destinati al (o autori del) massacro, è questa volta Sylvia (una tormentata Jessica Chastain) a prendere il centro dell’inquadratura. E poiché la conoscenza dei fatti, nel cinema di Franco, è prevalentemente indiretta – talvolta fino all’estenuazione, se si pensa alla reticenza insopportabile di Tim Roth nel malriuscito Sundown (2021) – è prima di tutto indirettamente che veniamo a conoscenza del suo passato da alcolista. La osserviamo nella sua piccola abitazione newyorkese, dove vive con la figlia quindicenne e l’ossessività con cui pulisce le superfici, impone rigide norme alla ragazza e si premura di chiudere a chiave l’ingresso ci fa subito sospettare che tanta meticolosità abbia solo parzialmente a che fare coi comuni pericoli di una metropoli e celi, invece, una ragione più nascosta. Pochi minuti sono passati e siamo già al centro di un mistero.

Una sera, con l’occasione di una festa di ex alunni del liceo, incontra un uomo (un ottimo Peter Sarsgaard, premiato con la Coppa Volpi). O meglio, viene da lui notata, e decide di sottrarsi al suo sguardo insistente e che indoviniamo indesiderato fuggendo dal party. L’uomo la segue con tranquillità insidiosa fin nella metropolitana e poi a casa, dove le doppie mandate alla porta di ingresso finalmente li separano. La mattina dopo Sylvia scopre che il misterioso inseguitore è ancora lì fuori, mezzo addormentato, infreddolito e infradiciato dalla pioggia, in stato confusionale. Viene fuori che l’uomo, non ancora cinquantenne, è affetto da demenza e soffre di frequenti crisi di memoria, che ne compromettono la consapevolezza dei gesti. Eppure lo sguardo con cui Sylvia, alla festa, ha reagito alla sua insistenza suggerisce che ci sia dell’altro, forse una conoscenza latente tra i due? Un passato in cui si sospetta qualcosa di opaco? E, nel caso, perché lei non gli si è rivolta subito con la fermezza che la situazione avrebbe autorizzato anziché inscenare quel teatrino di fughe e riconoscimenti? Sono, queste, solo alcune delle domande che ci frullano per il capo e continuano ad agitarsi sullo schermo, mentre i due tornano saltuariamente a incontrarsi, imparando pian piano a condividere le reciproche solitudini.

Si badi: non tutto funziona a dovere nell’intreccio ordito dal regista e talvolta, osservando i gesti dei personaggi (in specie quelli secondari), pare di scorgere distintamente i fili del burattinaio. Ciò è particolarmente vero negli scampoli (pochi, a essere onesti) in cui Franco, come riavendosi dal sogno (o forse, per lui, incubo) di gentilezza che lo stordiva, rammenta quale sia la malcelata origine della sua ispirazione e inserisce a forza una macchietta crudele – la madre brutale che non crede al dolore della figlia – per apporre la firma su un progetto che a stento gli si sarebbe attribuito, se non per ragioni stilistiche. L’austerità del suo cinema, difatti, è rimasta pressoché invariata, rimarcata dall’impiego ostinato di piani medi e quadri fissi, ove l’iniezione di umanità che fa vibrare corde inattese viene amplificata dall’impassibilità della messa in scena, quasi si proponesse di terremotarla, di uscire a forza da quegli spazi angusti per protendersi verso il pubblico. È ciò che avviene nell’ultima scena, quando lo spettro emotivo trattenuto per tutto il film esplode sulla progressione d’organo di A Whiter Shade of Pale. Un finale per certi versi persino troppo facile, saturo com’è di sentimento, e che fa leva con furbizia su un pezzo leggendario dei Procol Harum, che subito cattura le nostre orecchie e la nostra malinconia. Eppure al contempo sentiamo che per la prima volta qualcosa di molto vicino alla tenerezza sembra aver scalfito gli algidi fotogrammi di Michel Franco e, senza nascondere qualche dubbio sull’intierezza dell’opera, vogliamo prendere questo fatto come un segno di speranza per il futuro.

Matteo Pernini – MCmagazine 86

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