Parigi. Alain, giovane e romantico scrittore, un giorno incrocia per caso Fanny, suo grande amore fin dai tempi del college che ora conduce una vita altoborghese accanto al marito Jean. Quello che all’epoca era rimasto un sentimento represso, sboccia in una relazione segreta che mette la ragazza sempre più in difficoltà, combattuta tra desiderio di evasione e senso di colpa causato dal tradimento. La situazione precipita quando Jean se ne accorge…
Francia/Gran Bretagna (96’)
VENEZIA – È forte, al termine della proiezione di Coup de Chance, l’impulso a ringraziare Woody Allen, dacché il film, una commediola assai graziosa punteggiata da accenti drammatici, assume, in questa ottantesima edizione della Mostra del Cinema, il ruolo di un balsamo ricostituente dopo la fatica di tante visioni più ambiziose, ma anche più impegnative. D’altronde, giunto alla veneranda età di 87 anni – e, dunque, parafrasando Nanni Moretti, prossimo a tramutarsi in uno splendido novantenne – il regista newyorkese ha evidentemente accantonato il bisogno di sbalordire e la curiosità di sperimentare per dedicarsi, infine, alla cura solerte del proprio orticello, in modo tale che non periscano i frutti di un terreno coltivato con tanta dedizione per oltre cinquant’anni.
La trama, in breve: Fanny Moreau (si noti il chiasmo che lega in un sol nome due attrici chiave della Nouvelle Vague truffautiana, Fanny Ardant e Jeanne Moreau) incontra per caso Alain lungo una strada di Parigi. Lei lavora in una casa d’aste, lui fa lo scrittore. Si conoscono dai tempi del liceo; uno di quei legami formali che mai hanno fatto il salto a un’amicizia di fatto, ma bastevole a interrompere la routine per fermarsi a chiacchierare del più e del meno. Fanny è sposata a un uomo molto facoltoso e dalla professione poco chiara; Alain, da buon bohémien, vive in un sottotetto parigino – il che, nel 2023, ci autorizza a sospettare si tratti quantomeno di un bohémien di lusso. Nel mezzo dei discorsi vien fuori che lui ha sempre covato un sentimento d’amore per la giovane sposa, la quale, del resto, nei loro incontri pare ritrovare una spontaneità e una leggerezza che da tempo le mancavano. Ma il potente e sospettoso marito è all’erta e trama nell’ombra. L’operetta è tutta qui: un triangolo amoroso – lui, lei, l’altro -, una capitale europea, il ruolo del caso, il delitto e (forse?) il castigo. Come questi elementi vadano a combinarsi assieme è semplicemente il frutto di un mestiere ormai consolidato, che procede senza intoppi, con la sicurezza dell’artigiano che sa istintivamente quale sia il legno più adatto per un accessorio d’arredo. Da qui la reprimenda che ormai da qualche lustro si abbatte con la forza del luogo comune su ogni nuova opera del nostro, vale a dire quella di fare e rifare sempre lo stesso film. Ne conveniamo, ed è pur vero che sotto questa eclatante ovvietà si celino di fatto due interpretazioni: da un lato che quello alleniano è un universo chiuso e interamente ripiegato su se stesso, in cui tipi umani, luoghi, musiche e filosofie altro non sono che infinite variazioni sul medesimo tema. Dall’altro che nella libera combinazione delle forme ci si abbandoni in maniera quasi meccanica agli abusati riferimenti di sempre, sino a farne un brand. Alla prima interpretazione pertengono New York, il jazz, la cinefilia, l’impiego del fuoricampo, le schermaglie nevrotico-amorose; alla seconda le citazioni de Il grande Gatsby, i monologhi in voice over sulla fortuna, le panchine nei parchi, le facezie sulla vita in campagna.
Se un limite vi è nell’ultimo Allen, è proprio quello di inciampare ripetutamente nei secondi, finendo coll’indebolire le sue partiture d’insieme. Tuttavia, a differenza dei mediocri Rifkin’s Festival e Un giorno di pioggia a New York, questo Coup de Chance ha il merito di indugiare su tonalità più nere di quanto l’allegrezza di una commedia amorosa lascerebbe presagire. Ripensando ai cattivi-tipo del cinema alleniano, potremmo enunciarne il catalogo: il protagonista intrappolato nei suoi labirinti morali (Crimini e misfatti), il donnaiolo arricchito che teme il fallimento (Match Point), l’idiota (nel senso di Dostoevskij) che si caccia in una situazione più grande di lui (Sogni e delitti), l’aristocratico fascinoso dalla doppia vita (Scoop). Coup de Chance inaugura una nuova figura: il cattivo-cattivo, ossia l’uomo disprezzabile, di cui sentiamo scena dopo scena il peso dell’odio che spande attorno a sé. E i tocchi di colore che potrebbero addolcirlo (qui la malcelata passione per i trenini), finiscono anzi col ridicolizzarlo ai nostri occhi. Parzialmente intriso della bile di questo personaggio, il film muove nella parte centrale verso una cupezza apparentemente soverchiante, così che l’elemento comico-filosofico che sul finale disinnesca la tragedia e ci riporta nelle traiettorie della commedia, finisce coll’irrompere in maniera potenziata, suscitando nel pubblico (la proiezione veneziana lo testimonia) risate di gusto, originate non dall’idea di per sé, ma dalla sua messa in scena.
Al Lido un grande apprezzamento è stato, inoltre, riservato alla fotografia di Vittorio Storaro, che ormai da qualche tempo ha consentito ad Allen di abbandonare la caratteristica secchezza nel montaggio delle scene di dialogo, virando verso la più fluida visione offerta dal long-take, che qui accompagna il primo incontro dei due amanti e ritorna frequentemente a inseguirli negli spostamenti in interni. Pur senza negare l’efficacia del lavoro, riteniamo che risultati ben maggiori siano derivati dalla collaborazione dei due maestri nel bellissimo La ruota delle meraviglie (2017), dove realmente la fotografia di Storaro contribuiva a dar vita a un romantico (e terribile) mondo d’immaginazione. E sebbene gli elogi letti qua e là ci paiano a tratti eccessivi, non neghiamo il piacere sottile che abbiamo provato nell’entrare in questa ennesima variazione alleniana. Forse perché in fondo, dopo tanti anni, la sensazione è un po’ quella di tornare a casa.
Matteo Pernini – MCmagazine 86