L’invenzione della neve

Vittorio Moroni

La vita di Carmen non è mai stata facile, a partire dall’infanzia, quando viene sottratta dalla madre e cresciuta in una casa-famiglia. Sua figlia di 5 anni, Giada, è stata affidata a Massimo, il padre, ma per la donna non è accettabile che la figlia debba vivere il suo stesso destino, lontana dalla propria madre: Carmen farà di tutto per riuscire nel suo intento.

Italia 2023 (117′)

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  Elena Gigliotti. Segnatevi questo nome. È la protagonista assoluta de L’invenzione della neve di Vittorio Moroni, ora in sala dopo la fugace apparizione veneziana. Gigliotti possiede un divino magnetismo sulla scena, qualcosa di profondamente e naturalmente stanislavskijano. Fin da ora facciamo mea culpa nel non averla incrociata sui palchi teatrali più prestigiosi del paese. Capita. Rimedieremo molto presto. Intanto ne L’invenzione della neve si mangia il film, lo schermo, lo spettatore. Del resto Moroni nei titoli di coda ringrazia nientemeno che John Cassavetes e Gena Rowlands. E in qualche modo l’attrice calabrese, qui in un delizioso grammelot siculo pugliese, ricorda parecchio l’attrice statunitense, in quello straordinario eclettismo che zoppica causticamente nel borderline senza mai perdere la tenerezza. Invadente, colorata e prorompente Carmen (Gigliotti) torna nella casa vuota dove ha convissuto con l’ex marito per il compleanno della figlia. I due pare abbiano avuto una relazione travagliata, violenta e perfino zeppa di droga. Mentre ora l’affidamento della figlia è un rebus parzialmente vinto dal’ex, Massimo (Alessandro Averone). Questo porta Carmen a compiere sotterfugi retorici, usare sotterraneamente la sua presenza sexy, nonché mentire un po’ con tutti. Ma Carmen è solo una fragile, folle, regina di un regno animal-familiare estinto e dissolto in un mondo di consuetudini seriose, formali, distratte.

L’invenzione della neve è uno studio sul personaggio. Uno slittamento della protagonista in poco più di una mezza dozzina di quadri, con un/a coprotagonista differente con cui dialogare e spingersi spesso al limite. Nella prima lunga, sensuale, iperfisica sequenza Carmen è ai ferri corti con Massimo; nella seconda con la timida amante dell’ex, commessa in un negozio di animali; nella terza è lei intimorita di fronte ad un’assistente sociale e via via fino alla sorella amica non amica, e di nuovo con l’ex e la suocera a scalpitare. In mezzo un assolo in graduale nudità, dirompente stato psicotropo, improvvisamente svuotata e sbiancata come un cencio. Se a questa performance psicofisica della Gigliotti aggiungiamo che la regia di Moroni è stilisticamente dardenniana (all’impercettibile steadycam c’è Julien Dehersemaeker), con una prossimità della macchina da presa agli attori che si ricostruisce di attimo in attimo, e una particolare predilezione nell’insistenza dei profili tagliati sul viso picassiano della protagonista, il piccolo miracolo intimista de L’invenzione della neve si compie in quasi due ore di film che scappano tragiche e virtuose. Su tutto aleggia un’animalità favolistica che si apre e chiude nelle animazioni di Gianluigi Toccafondo come nel recuperare qua e là dettagli bestiali (una maschera, un tatuaggio, un dipinto sul muro) che bucano il consueto.

Davide Turrini – lfattoquotidino.it

  Carmen ha alle spalle una infanzia dominata dall’assistenza sociale, un divorzio conflittuale, un passato di tossicodipendenza ed un figlio che non riesce a vedere ma, Carmen, è il centro di movimento, isterica vitalità e drammaticità di tutto il film di Moroni, presentato alla Biennale Cinema nelle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori. Moroni, che ha alle spalle una filmografia nutrita in maniera anfibia di scrittura e documentario costruisce questa storia che affonda in un delirio di solitudine rabbia e disperazione, con un piede in un copione e l’altro nella libertà dell’improvvisazione: “Ho chiesto ad Andrea Caccia, e alla sua macchina a spalla, e a Daniele Sosio, con la sua asta microfono, di danzare con me e con gli attori, accettando il rischio dell’imprevisto”. In effetti cameraman e fonico della diretta sono importanti quanto i due attori, Elena Gigliotti (il cui profilo sembrerebbe meritare un film con Pedro Almodovar) e Alessandro Averone, i quali, insieme ad Anna Ferruzzo, nei panni di una psicologa e assistente sociale sono in uno stato di moto ininterrotto mentre tutti affrontano i fiotti di incontinenza verbale di Carmen perennemente in bilico tra seduzione e aggressione, lusinga e disprezzo. Carmen riuscirà a convincere l’ex marito a concederle di fare una festa con il figlio? Persuaderà la terapeuta che quella foto che invita alla prostituzione su Instagram non è la sua foto? Convincerà la famiglia presso la quale lavorava come collaboratrice domestica a riprenderla nonostante le sue intemperanze: chi certo riesce a convincere a stare dalla sua parte sono gli spettatori e lo sguardo della camera che la segue con palpitante e slabbrata inermità. C’è una divinità del cinema che è patrono di tutti i film in cui il regista segue gli attori usando la camera come un artiglio prensile per non lasciarsi sfuggire neanche una scintilla del tumulto che genera la loro collera e la loro angoscia, la loro rassegnazione e la loro rabbia, il sarcasmo della loro impotenza e le lacrime dei loro sogni e questa divinità si chiama John Cassavettes l’autore-attore che, a partire dalla fine degli anni ’50, con Shadows e Faces, azzerò la messa in scena del sistema hollywoodiano con un teatro di carne e sguardi incisi sulla pellicola che è innanzitutto un atto d’amore nei confronti di chi si cimenta nell’arte e nella sfida soggettiva della recitazione. Questo film di Vittorio Moroni, girato in un paio di interni anonimi e urlanti, ed una villetta su una suggestiva scogliera siciliana, somiglia un po’ ad un’offerta votiva, ad un sacrificio di pulsioni ed emozioni, a quella divinità.

Mario Sesti – huffingtonpost.it

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