Il sol dell’avvenire

Nanni Moretti

Giovanni sta girando un film ambientato nel 1956 e incentrato sulla storia del segretario di una sezione del PCI che deve capire come reagire all’invio dei carri armati sovietici a Budapest. La produttrice del film è sua moglie Paola, che però sta pensando di lasciarlo, anche se Giovanni non lo sa…

Italia 2023 (95′)

  Nanni Moretti allo stato puro, al meglio di sé. Il sol dell’avvenire è un film bellissimo, che vale la pena vedere per tante ragioni. I fan del regista troveranno il suo stile, la sua mitologia, il suo armamentario estetico e drammaturgico nella forma più splendente degli ultimi tempi: lui in prima piano che scandisce parole e riflessioni esistenziali, l’inestricabile intreccio tra vita e cinema, il sovrapporsi di questioni estetiche, etiche ed esistenziali, un’amara ironia che non risparmia niente e nessuno, una sottile critica della nostra società… Qualcuno dirà: ecco, un campionario che può soddisfare solo chi ama Moretti, mentre per tutti gli altri il risultato è noia, quando non disappunto. E invece no: Il sol dell’avvenire è un film ad alto tasso morettiano eppure in grado di interrogare, provocare e divertire anche chi non appartiene alla sua squadra. Intanto perché questa storia che indaga sullo spegnersi dei grandi ideali che ci hanno animato in passato riguarda tutti, gente di destra e di sinistra, apocalittici e integrati, senza distinzioni. Poi perché il pessimismo cosmico – non si sa se più leopardiano o morettiano – questa volta cede il passo, nel finale, a un’inattesa apertura, a una speranza di poter cambiare le cose, come cambia idea il protagonista-Silvio Orlando, alter ego del regista Moretti, quello del film e quello in carne e ossa. Insomma, il mondo e il cinema contemporanei sono abbastanza brutti, ma non è detta l’ultima parola. In terzo luogo, qui il narciso Moretti mette davvero in discussione tutto, badando bene di non lasciare fuori sé stesso: al contrario, si lascia investire pienamente dalla crisi e dalla critica, sotto tutti i punti di vista, dalla figlia, dalla moglie, persino da Netflix!!! E se anche tutto ciò non convincesse qualcuno, c’è una lunghissima scena del film che merita di entrare direttamente nella storia del cinema: quella in cui il regista Moretti che interpreta sé stesso blocca la scena di un altro film in cui un uomo sta sparando alla testa di un altro in ginocchio. Insomma, il trash violento e spettacolare che oggi imperversa dovunque. Ecco, qui ironia e indagine etico-estetica toccano vertici altissimi e non possono non coinvolgere, peraltro riuscendo pure a far ridere. Ecco perché Il sol dell’avvenire non va perso!

Paolo Perazzolo – famigliacristiana.it

  Due anni dopo aver realizzato, per la prima volta nella sua carriera, con Tre piani un film tratto da una sceneggiatura non sua (alla base c’era l’ottimo romanzo omonimo di Eskol Nevo), Nanni Moretti torna dietro la macchina da presa per un film intriso del suo cinema e della sua poetica. Scegliendo di utilizzare il passato (gli eventi del 1956) per capire il presente e riflettere così sul futuro, Moretti mescola un autocitazionismo sfrenato – la coperta con cui si copre mentre sta per guardare Lola è la stessa della locandina di Sogni d’oro (1981) – con diversi spunti sarcastici sull’attualità, mettendo alla berlina un’industria cinematografica e televisiva che ha perso per lui la giusta direzione estetica e, di conseguenza, etica: dalla violenza gettata in pasto come intrattenimento a degli spettatori sempre più voraci, passando per strategie distributive incentrate unicamente sul consumo facile e sugli algoritmi netflixiani. Si apre con un’azione dal sapore circense, Il sol dell’avvenire, il film forse più felliniano e, ancor più, chapliniano (entrambi citati esplicitamente) che Moretti abbia fatto nella sua carriera, ma anche in questo caso la riflessione sul passato della settima arte è utilizzata per comprendere il cinema del presente. Tra caroselli e girotondi, Il sol dell’avvenire ci trasporta a bordo di una girandola di emozioni contrassegnata da tempi comici perfetti e da passaggi commoventi ad alto tasso emotivo, sui cui svetta la splendida manifestazione finale che rappresenta una delle conclusioni più forti della filmografia di Moretti. Poco importa che alcuni concetti siano un po’ ripetuti (il rapporto tra amore e politica, in primis) di fronte a un disegno di insieme incisivo, maturo e capace di insegnarci così tanto sul cinema e, di conseguenza, sulla vita. Perché anche di fronte a un fallimento esistenziale che ci appare senza speranza, il finale della nostra storia si può sempre cambiare. Perché la Storia, ci insegna ancora una volta Moretti, si può fare anche con i se e con i ma.

longtake.it

  Se si dovesse dare un voto da uno a dieci a Il sol dell’avvenire, il nuovo film di Nanni Moretti, sarebbe senz’altro 9 e 1/2. Per due motivi. Il primo più strettamente legato ai ricordi scolastici, perché questo lavoro sfiora la perfezione, il secondo perché forse come non mai Nanni ha preso Fellini come chiave, sia mostrando la sequenza finale di La dolce vita, sia citando 8 e 1/2, sia utilizzando il circo come momento importante del suo racconto, sia con la scena iniziale in cui il titolo del film viene dipinto sulle arcate di un ponte come a suo tempo al teatro 5 di Cinecittà dipingevano il cielo azzurro con nuvole i due operai sul trabattello. Del resto «il cinema è come il lavoro dei trapezisti, non si sa mai cosa succederà». Però Fellini non è l’unico regista a comparire, ci sono Ophüls e l’inizio di Lola, viene citato Un uomo a nudo di Frank Perry, The Blues Brothers di John Landis (per l’unica deroga possibile nei confronti delle pantofole usate da Aretha Franklin) e ancora Kieslowski e Un breve film sull’uccidere, John Cassavetes e l’improvvisazione, San Michele aveva un gallo dei fratelli Taviani e chissà quant’altro sfuggito nell’inarrestabile e irresistibile racconto a incastri orchestrato da Nanni. Per dare un’idea della storia diremo che il protagonista Giovanni (Nanni) è un regista, con moglie produttrice (Buy), che vuole girare un film sui comunisti italiani e il 1956 quando l’Urss invase l’Ungheria reprimendone duramente la voglia di libertà. Eccoci quindi al Quarticciolo dove il dinamico quadro Pci (Orlando) con moglie allineata (Bobulova) invitano un circo per allietare le masse. Solo che il circo Budavari è ungherese e laggiù, in quel momento, succede di tutto, come documentano le ancora poche tv domestiche. La moglie però sta anche producendo un film d’azione con un altro regista. E Giovanni va sul set, bloccando le riprese anzi proprio «l’ultima scena», ben lontana da Leonardo, contestando l’uso della violenza come intrattenimento (per sostenere la sua tesi consulta anche Renzo Piano, Chiara Valerio, Corrado Augias e telefona a Scorsese). Questo mette ancor più in crisi il suo matrimonio. Già perché il film parla di comunismo, ortodossia, obbedienza e politica, poi di cinema e di etica, ma anche d’amore e di rapporti di coppia, con un utilizzo emotivamente irresistibile di canzoni italiane (Noemi, Tenco, De André, Battiato). E ancora Nanni insiste con i suoi capisaldi: le scarpe, magistrale la critica del sabot, l’interferire con quanto devono dire gli altri, le facce che commentano quel che succede e di solito viene disapprovato, il riferimento ungherese, le frasi in inglese (indimenticabile «what the fuck»), oltre all’aver richiamato tutti i suoi attori feticci e non in una festosa parata laica. Ma ci sono anche momenti decisamente innovativi come il confronto con Netflix, un’imprevedibile tolleranza, seppur non in prima battuta, nei confronti del fidanzato della figlia piuttosto agé. Moretti si rivolge ai suoi coetanei, a coloro che hanno avuto una formazione simile e orientata a sinistra e li invita a riflettere, non sul comunismo, ma sulla vita in generale e anche sulla morte. Inevitabile poi che il suo pubblico (anche se il suo alter ego afferma «mi piace dire che non penso al pubblico quando faccio un film» salvo aggiungere subito «ma non so se sia vero») si ritrovi sia nei momenti di passione cinematografica, sia in quelli più esistenziali perché qui siamo alla «morte dell’arte, del comunismo e dell’amore».

Questo nuovo Moretti è un film che prende il cuore e lo strizza spremendone commozione ma anche grandi e liberatorie risate. Forse pervase da frammenti di malinconia, ma non per questo meno dirompenti. Perché si ride davvero molto di fronte a questo monumentale guardarsi allo specchio, con tanta voglia di avere tutto sotto controllo mentre la realtà è sfuggente, scivola da tutte le parti, devia in modo imprevedibile, è inafferrabile e una volta che sembra di averla agguantata e addomesticata è già andata altrove a disegnare nuove trame (…) Ci sarà che potrà storcere il naso, affermando che questa è un’ulteriore prova del narcisismo di Moretti e della sua autoreferenzialità (addirittura nel film si autodefinisce «delizioso»). E allora forse vale la pena di scomodare di nuovo Fellini per ricordare che tutto il suo cinema era autoreferenziale, ma questo non è stato certamente un limite, anzi ha contribuito in maniera decisiva a farlo diventare addirittura un aggettivo. In attesa che i francesi lo incoronino a Cannes citiamo di nuovo Giovanni con voce e volto di Nanni, «Ognuno nella vita dovrebbe avere due o tre principi», ecco, forse ci siamo un po’ dimenticati che qualche punto fermo come bussola potrebbe non guastare, se poi questo potesse spingerci a rileggere e a modificare la Storia per strappare un sorriso, tanto meglio.

Antonello Catacchio – ilmanifesto.it

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