Freddie, istintiva e testarda ragazza sudcoreana adottata da una famiglia francese, sceglie Seoul come destinazione alternativa dopo la cancellazione del suo volo per Tokyo. In questo paese di cui ignora lingua e costumi, si mette sulle tracce dei genitori biologici, iniziando un viaggio attraverso la sua cultura d’origine e affrontando le conseguenze dell’abbandono e del rifiuto.
Retour À Séoul
Francia/Cambogia 2022 (117′)
Bisognerà segnarsi questo nome: Davy Chou. Regista franco-cambogiano, oggi 40enne, scrittore, regista e produttore, si era fatto notare come autore alla Semaine di Cannes nel 2016 con Diamond island, ma è soprattutto con questo Ritorno a Seoul, anch’esso passato l’anno scorso a Cannes, ma promosso alla sezione Un certain regard, che ha mostrato una qualità non indifferente di narratore, una padronanza rilevante di sintassi cinematografica, ragionando con il tema che gli sta più a cuore: la ricerca delle proprie origini e la loro frattura con il vivere quotidiano. Partendo da una storia raccontata da un’amica coreana e che si collega alla propria esperienza di figlio, i cui genitori scapparono dalla Cambogia al tempo dei khmer rossi (esodo riassunto nel suo documentario Golden Slumbers), Davy Chou ci fa incontrare Freddie, giovane 25enne che arriva a Seoul, là dove neonata era stata ceduta in adozione a una coppia francese. Ci basta la prima scena a farci capire come Freddie sia una ragazza ostinata e supponente, non disposta molto al compromesso, apparentemente forte, non priva però di fragilità. L’arrivo in Corea le dà la possibilità della ricerca dei propri genitori biologici, ma il percorso si dimostra accidentato: l’incontro con il padre non è tra i più piacevoli, essendo l’uomo spesso ubriaco e diventando in breve tempo una presenza ossessiva nel tentativo di riportare la figlia a casa. Ma l’ostacolo maggiore risulta la madre, che nemmeno l’agenzia di collocamento per le adozioni riesce a contattare. Diviso per capitoli temporali, dove troviamo Freddie che nel frattempo si ricolloca a Seoul e inizia una ronde di compagni sempre assai precaria, a cominciare dal venditore di armi con il quale trova anche una collocazione professionale, Ritorno a Seoul è la sintesi di una continua ricerca di se stessi e del posto per stare al mondo, mostrando come il loro coniugarsi diventi via via più insoddisfacente, a cui l’espressività della bravissima interprete Park Ji-min dona quelle sfumature ambigue e chiaroscurali che accompagnano il disarmonico progredire della storia. E se al capolinea Freddie riceve finalmente un segnale da parte della madre, che Davy Chou rappresenta in modo mirabile come l’autentica fantasma della storia anche davanti alla sua presenza, non a caso illusoriamente temporale, la ricostruzione della propria cultura originale resta pervasa da un’irrequietezza indomabile, che lascia spazio in definitiva a una malinconia struggente, come dimostra il finale davanti a un pianoforte. Ne esce un film affascinante, quasi sfuggente nel contrasto dei sentimenti e delle azioni della protagonista, instabile al pari delle relazioni amorose con la necessità di arrivare a una vera e propria rinascita.
Adriano De Grandis – ilgazzettino.it
Davanti ad un film come Ritorno a Seoul così attento a costruire la storia attorno ai tempi morti, si resta sempre sorpresi dai suoi rari attimi di follia: da quei movimenti improvvisi nello spazio, che come saette nel buio, squarciano i ritmi regolari dell’attesa, per illuminare una verità che la sola macchina da presa, nella staticità del suo sguardo, non è in grado di – o non può – rivelare. Più volte nel film vediamo la giovane Freddie (Park Ji-min) scattare in piedi da una posizione di immobilità (emotiva, esistenziale, fisica) e iniziare a ballare, quasi come se questo gesto la risollevasse da terra: come se avesse bisogno di una scossa improvvisa di adrenalina che la porti a prendere coscienza dei suoi disagi. Di quel vuoto, che a partire dall’istante in cui è stata abbandonata dai genitori coreani quando era ancora in fasce, le fa crollare il terreno da sotto i piedi. Con la realtà (o forse il mondo) che sembra perdere sempre più di significato. È proprio a questa incapacità della protagonista di metabolizzare quel trauma che la accompagna sin da bambina che Ritorno a Seoul lega tutte le sue investigazioni: nello spazio, nell’identità e, soprattutto, nelle relazioni familiari. Quel che il film di Davy Chou (qui alla sua seconda regia) mostra attraverso l’ostinata ricerca di Freddie dei suoi genitori naturali è la difficoltà a risalire alle origini – e quindi a ritornare alle radici del trauma – in un paese che non (e in cui non si) riconosce, nonostante sia a tutti gli effetti il suo luogo natio. Ma Freddie non è coreana: insieme alla sua famiglia adottiva ha sempre vissuto a Parigi, e l’unica lingua a cui affida i suoi giudizi e pensieri è, naturalmente, quella francese. Un ostacolo culturale, che parallelamente a quella sensazione di spaesamento che cadenza ogni passo della sua vita, non fa che aumentare il divario tra ciò che desidera nel profondo – cioè la presa di coscienza degli effetti traumatici dell’abbandono – e l’attesa per quel “senso di appartenenza” che l’incontro con i genitori dovrebbe, almeno nelle sue previsioni, attivare. Quel che sorprende veramente di Ritorno a Seoul è il modo in cui annulla i desideri della protagonista nel momento stesso in cui li mette in campo. Perché la vita di Freddie è l’immagine della passività: ogni azione che la ragazza compie è un passo in più verso il buio, che non rischiara né dissipa le nubi che ne rendono così inconcludente il cammino. E lo stesso viaggio che la porta a muoversi (o meglio, a girovagare) lungo tutto il territorio coreano, da Seoul a Gunsan fino a Jeonju, non fa che sbatterle in faccia una dura verità: cioè che la Corea, quel paese a cui “appartiene” e in cui ricerca così strenuamente un senso radicamento, è per lei un luogo senza coordinate. Il limite di una vita che ha un inizio nebuloso e una progressione ancora meno lineare. Per cui conta il solo momento presente, avvolto in un’anestesia talmente invasiva e soffocante, da poter essere affrontata, disinnescata (ma mai superata?) solo attraverso il ritmo di una danza folle. Con l’atmosfera che di volta in volta cambia, si elettrizza per poi ritornare, ostinatamente, allo stato di passività iniziale.
Daniele D’Orsi – sentieriselvaggi.it
Per il suo secondo lungometraggio, Davy Chou, regista cambogiano naturalizzato francese, ingaggia una scultrice e pittrice senza alcuna esperienza attoriale: sorprende quindi come Park Ji-min, sudcoreana cresciuta in Francia, sorregga senza fatica un film dalla regia sommessa, apparentemente al servizio delle sue espressioni dure e dei suoi occhi rabbiosi, che riempiono l’immagine con primi piani immobili, ma tesi e pronti a incrinarsi. Il regista stesso dice che, in alcune sequenze, c’è una lotta tra lui e Freddie: “lei fa quello che vuole” e la telecamera la insegue. Ed è così che la giovane donna controlla e allontana la tristezza e la paura generate dall’abbandono: prende il controllo della situazione in maniera caotica e istintiva, minacciando anche di cancellare gli affetti “con uno schiocco di dita” e gli altri si devono adeguare. Questa regia silenziosa con la sua estetica calda e accogliente è il letto perfetto per dare risalto al fiume sotterraneo di rabbia e tristezza che navighiamo insieme a Freddie.
longtake.it