Negli anni ’70 l’Italia è sommersa dall’eroina. Carlo Rivolta, giornalista tra i più attenti della sua generazione, è tra i primi a raccontare il fenomeno dalle colonne di un giornale nuovo, “Repubblica”. Intuisce le dinamiche che regolano il traffico. Mette il consumo crescente in relazione al naufragio dei movimenti collettivi nati dalla spinta del ’68. È la voce di una generazione in caduta libera. Ma la consapevolezza non lo risparmia.
Italia 2022 (80′)
Nastri d’argento 2023 – miglior documentario Cinema del reale
Arriva finalmente nelle sale italiane uno dei film documentari più intensi dell’anno, presentato all’ultimo Torino film Festival e premiato con il Nastro d’argento per il Miglior documentario dell’anno: La generazione perduta di Marco Turco, il racconto della vicenda sconvolgente del giornalista Carlo Rivolta, figura incredibilmente rappresentativa delle pulsioni, passioni e drammi degli anni ’70 in Italia. Scritto dal regista insieme a Wu Ming2 e Vania Del Borgo e prodotto da Francesco Virga per MIR cinematografica e Luce Cinecittà, in collaborazione con Rai Cinema e AAMOD (Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico), il film di Marco Turco ha al centro del racconto la vita di Carlo Rivolta, giornalista de La Repubblica fin dal primo numero e autore di memorabili inchieste sull’eroina che – tra il ’74 e il ’75, in un periodo di grandi cambiamenti e speranze per un’intera generazione – si diffonde rapidamente in Italia e trova impreparate le famiglie, i medici e gli stessi ragazzi che non sono in grado di affrontarne la dipendenza. Carlo indaga il fenomeno da cronista, arrivando a testare su di sé la droga, con esiti devastanti. “Questa è la storia di una generazione, una sinfonia corale accompagnata dalla voce di un solista. – spiega Marco Turco – Attraverso le parole e lo sguardo di Rivolta, viviamo in diretta lo spirito dei tempi, le enormi speranze e le amare delusioni di una generazione devastata dall’eroina.” Ma quelli sono anche gli anni della lotta armata. Militante dei movimenti del ’68, quando nel 1978 viene rapito Aldo Moro, Carlo si dichiara favorevole alla trattativa, in contrasto con il suo stesso giornale e con i suoi ex compagni, che lo bollano come traditore del popolo minacciandolo di morte. Attraverso le testimonianze di chi l’ha conosciuto, (i colleghi e amici Enrico Deaglio e Luca Del Re, lo zio Rinaldo Chidichimo, la compagna storica Emanuela Forti e i suoi due figli che lui ha cresciuto come un padre) la figura di Carlo emerge con tutte le contraddizioni ma anche con la sua coerenza nella ricerca della verità fino alla fine, quando la crisi personale lo porterà all’autodistruzione e poi alla morte a soli 32 anni. La vicenda di Carlo e della generazione perduta viene messa in scena grazie a un inedito e ricco materiale di Archivio Rai, Archivio Luce e AAMOD. La voce di Carlo, che esce da un vecchio registratore Geloso è affidata all’attore Claudio Santamaria che legge brani dei suoi articoli. Così la vicenda personale di Carlo Rivolta in questo intenso docufilm diviene la personificazione emblematica di un mondo che mutava inesorabilmente travolgendo le attese e le speranze di una generazione che aveva creduto nel cambiamento e si ritrova a contare i propri morti.
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Nelle prime scene di La generazione perduta si vede un footage degli anni Settanta di un – presumibilmente – notiziario televisivo in cui una pattuglia della polizia ritrova un corpo esanime in un’automobile dell’epoca: da fuori della vettura la telecamera cerca di trovare il viso del giovane, dal vetro del finestrino mezzo aperto, dalla portiera accanto a quella guidatore. Quando nell’inquadratura finalmente appare il morto, il ragazzo è bellissimo, i lineamenti non sfigurati dalla morte, piuttosto pacificati dalla fine di un percorso tragico come quello del tunnel dell’eroina, la droga più in voga in quel periodo. Un documentario che indaga un fenomeno dilagato rapido e infingardo, sottile e capillare nel mondo della contro cultura giovanile che veniva da Woodstock e arrivava alla lotta armata, diviene, nel suo farsi, un documento fondante da distribuire nelle scuole di oggi e di domani. Attraverso la vicenda personale del giornalista Carlo Rivolta, firma politica di punta nelle prime pagine di La Repubblica, il film racconta il mondo di una generazione perduta, alla ricerca quotidiana del denaro per la dose, la facilità con cui dalle droghe leggere si finiva al primo buco (facilità manovrata dall’alto), il senso di perdita di senso che ha percorso gli anni post sessantottini. Un senso di angoscia e disillusione, spreco e disperazione, trapelano dalle lettere del reporter che, da insider nell’universo dello spaccio e della malavita che c’è dietro, ci cade dentro con coscienza, inizialmente quasi convinto di riuscire a tenere testa al mix di alti e bassi causato dalla mescolanza sapiente di eccitanti e calmanti. La voce fuori campo di Claudio Santamaria dà spessore alle lettere indirizzate all’amore della vita, alle pagine di diario, agli articoli di un uomo geniale e sfaccettato, complesso e autodistruttivo che ha finito per dare spazio al buio che lo attanagliava da dentro.
Film tutto di montaggio di materiale di archivio (di registi off come Alberto Grifi e Antonello Lambro), trasmissioni televisive del passato (di Sergio Zavoli) e interviste attuali (si – e ci – raccontano dettagli privati la compagna di Rivolta, Emanuela Forti, il figliastro Andrea Lapponi, il compagno di strada Enrico Deaglio, direttore del giornale “Lotta Continua”, il fratello della madre, tra gli altri), in un crescendo di tensione narrativa: le testimonianze di giovani tossicomani – da un documentario dell’epoca – portano intera l’angoscia esistenziale di chi ha vent’anni e vive rubando ogni giorno per recuperare cinquecentomila lire, giuste per farsi (l’ex operaia del nord Italia fuggita da un matrimonio combinato dalla famiglia e finita per le strade milanesi a far piccole rapine con un compare tossico; la ex pornostar che, con i film, si paga la droga – e che dichiara l’insensibilità nel girare le pellicole in stato di totale alterazione; la ragazza che ha tentato più volte il suicidio, quella molto lucida che proclama la totale inutilità dei centri di accoglienza che sostituiscono l’eroina con il metadone). Crudo nel mostrare dettagli della siringa che entra nella vena, nella reazione ospedalizzata alla crisi di astinenza, nello sbarellare di persone per la strada o nei parchi e cadere violentemente a terra: gli anni Settanta avevano sdoganato l’abuso di droga nell’immaginario collettivo quotidiano. Una generazione si è perduta strada facendo, qualcuno è sopravvissuto, i più fortunati, qualcuno no.
Fabiana Sargentini – close-up.info