1980. In una cittadina della costa settentrionale del Kent, in una Gran Bretagna alle prese con razzismo e recessione, sembra che il cinema Empire possa essere l’unica ancora di salvezza. Il gestore punta moltissimo sulla première di un film molto atteso come Momenti di gloria, che potrebbe dare nuovo lustro alla struttura dopo la chiusura di due delle quattro sale. Nel cinema lavora Hilary, una donna di mezz’età che soffre di depressione e ha una relazione proprio con il suo datore di lavoro. L’incontro con un nuovo dipendente di colore, Stephen, potrebbe dare una svolta alla sua esistenza
Molti film hanno fatto di un cinema, inteso come sala, il perno del racconto. Pochi hanno tralasciato lo schermo, il gioco di ombre e riflessi acceso dallo spettacolo, per concentrarsi sul personale del cinema stesso. È quanto fa il sempre eclettico Sam Mendes (da American Beauty a 1917 da Era mio padre a Skyfall). Anche se la prima parola di Empire of Light è “popcorn”, solo in extremis vedremo cosa si proietta in quel maestoso palazzo del cinema torreggiante sulle coste inglesi nei primi anni Ottanta. Per il cinema-cinema infatti è iniziata una lunga decadenza. E anche se gli impiegati dell’Empire non sembrano farci caso, tutto, a cominciare dalla fotografia meravigliosa di Roger Deakins, parla di grandezza e nostalgia, ovvero di perdita e rimpianto. Il lungo tramonto delle sale metterà lentamente fine a uno dei più perfetti dispositivi elaborati dalla modernità per avvicinare classi, generazioni, mondi. Un universo reale e fantastico insieme, in cui perdersi e ritrovarsi. Come càpita anche ai protagonisti di Mendes, la matura Hilary (Olivia Colman), direttrice di sala con qualche turba psicologica sulle spalle, e il giovane Stephen (Micheal Ward), studente nero di modi gentili e sfolgorante bellezza, neoassunto in quel piccolo gruppo di anime perse che lavora all’Empire formando una specie di famiglia vicaria. Non è difficile indovinare che Hilary e Stephen, benché così distanti, sono destinati ad avvicinarsi. Con molte complicazioni vista la fragilità di Hilary, la sua relazione segreta col direttore dell’Empire (un infido Colin Firth). E i ricorrenti problemi di Stephen con gli skinheads dell’era Thatcher. Il tutto mirabilmente intrecciato ai luoghi stessi di quel palazzo-labirinto, a partire dal grande salone con pianoforte e vista sul mare, ora frequentato solo dai piccioni. Nell’adagiarsi su questa bella intuizione visiva Empire of Light fa sì che protagonisti e comprimari anziché diventare personaggi di carne e sangue sembrano più che altro restare al servizio di Grandi Temi come il Razzismo, l’Intolleranza, il Disagio psichico e sociale, ma il tutto è percorso da un flusso di echi visivi e sonori anni Ottanta culminante nei grandi cartelloni e nelle (rare) scene estratte da titoli epocali come I Blues Brothers, Oltre il giardino, Evita: uno spettacolo sicuramente affascinante…
Fabio Ferzetti – espresso.repubblica.it
Dreamland, terra di sogni. Si chiamava così un parco divertimenti con tanto di sala cinematografica a Margate nel Kent. Una sala sontuosa, in disuso da tempo. Lì, in quella terra di sogni, Sam Mendes ha deciso di ambientare il suo nuovo film Empire of Light. Un grandioso monumento al cinema, agli strumenti che lo hanno reso possibile e alle persone che ci hanno lavorato. Non quelli che lo hanno fatto, niente registi o attori, bensì maschere, addetti alle biglietterie e agli snacks, operatori. Figure ormai d’altri tempi. Infatti il film è ambientato nel 1981 nella cittadina costiera in cui il cinema Empire fa bella mostra di sé. Ma non sono tempi sereni. A capo del governo impazza la signora Thatcher con la sua politica liberista micidiale per i lavoratori. I fascisti del National Front scorrazzano e compiono nefandezze. Il razzismo sempre sotteso sta diventando più aggressivo e anche esplicito. In questo contesto all’Empire lavora Hilary, come caposala. Non più giovanissima, appena rientrata al lavoro dopo avere avuto trascorsi oscuri di instabilità psichica e sussulti comportamentali anomali, costretta a prendere litio come terapia. Una figura poetica e contraddittoria, capace di commuoversi facilmente quanto di adirarsi, succube e complice degli abusi del titolare della sala, abituato a prendere quel che ritiene gli spetti di diritto. Geloso del suo spazio, barricato in una cabina di proiezione quasi invalicabile sta invece Norman, che vive così la sua posizione quasi borderline.
Ci sono poi gli altri, compreso Stephen, giovane nero, studente di architettura al quale servono i quattrini che rimedia con quel lavoro. Stephen deve fare buon viso a cattivo gioco quando qualche arrogante di turno lo prende di mira. Ha bisogno. Di tutto. Anche di affetto, per questo forse rimane colpito dall’atteggiamento di Hilary che lo porta ai piani alti, dove ci sono i resti di bar e sala da ballo, dove i piccioni hanno trovato casa, luogo dal quale si domina il paesaggio e si può assistere ai fuochi d’artificio. Anche se, paradossalmente, Hilary non è mai entrata in sala a vedere un film, mentre Stephen è un appassionato, tra i due nasce un rapporto tenero ma complicato dalla differenza di età, dalle differenti origini, dai differenti comportamenti e dalle differenti prospettive. Si potrebbe definire una storia senza futuro, che va assaporata e vissuta al momento, per quel che può dare. Ma non è facile.
Su questo tessuto narrativo Mendes, per la prima volta sceneggiatore di se stesso in solitaria, ha scritto durante il periodo pandemico, cesella momenti di sperticato amore per il cinema al limite del feticismo. Non è una novità, visto che solo in questo periodo sia Spielberg che Chazelle lo hanno fatto. Lui però ammanta forse anche di nostalgia soprattutto il fascino di tutti quei piccoli grandi congegni che rendono possibile la visione del film in sala e che dal tempio della cabina possono stregare il pubblico avvolgendoli di emozioni con quel fascio di luce. Per questo Empire of Light è un film imprescindibile per tutti coloro che amano il cinema, che in sala sono stati capaci di spaventarsi, ridere, piangere, innamorarsi. Non si tratta di nostalgia, ma di celebrare qualcosa che forse sta scomparendo o che solo sta diventando sempre più forma residuale travolta dalla tecnologia, dal digitale e dai tempi.
Ma non si può trascurare il lavoro che offrono gli interpreti a partire da Olivia Colman che dà a Hilary una tale quantità di sfaccettature che avrebbero dovuto portarla direttamente tra le candidate all’Oscar, invece, ha dovuto accontentarsi di una semplice nomination ai Golden Globe. Forse le candidature a raffica degli ultimi anni hanno avuto un effetto boomerang. Puntuale la presenza di Colin Firth come personaggio scomodo e opportunista nei panni del titolare sposato. Perfetto nella sua parte di proiezionista Toby Jones, presenza imprescindibile delle produzioni britanniche di livello. L’unico a essere contemplato dagli Oscar è stato Roger Deakins, direttore della fotografia alla sua sedicesima nomination (solo due statuette vinte per Blade Runner 2049 e 1917 sempre con Mendes).
Antonello Catacchio – ilmanifesto.it