Uno sguardo sulla memoria del passato attraverso le voci dell’Albania contemporanea, un’Albania non facile da raccontare perché negli anni recenti in continua evoluzione, oscillando tra le incrostazioni di una società arcaica e lo slancio morale e tecnologico di un paese che ha riconquistato la libertà dopo anni di dittatura. I cambiamenti comportano contraddizioni, passaggi anche dolorosi.
Italia 2022 (81′)
La forza e la ricchezza di un paese si fondano sulla capacità del suo popolo di mantenere vivo nel tempo, per le vecchie e per le nuove generazioni, il ricordo delle tradizioni, aprendosi al futuro utilizzando la memoria e gli insegnamenti del passato. Come per i canti della mietitura o per i riti di passaggio, queste linee del tempo, che pulsano identità e indicano un rigoroso sistema valoriale, diventano connettori emotivi da tramandare ai più giovani. In questo caso si manifesta un cortocircuito dettato dalla Storia e i protagonisti ci raccontano, a bassa voce, la ricerca affannosa di un recupero identitario o forse semplicemente l’imminente voglia di confessare il loro stato d’animo. L’Albania ha vissuto uno dei regimi comunisti più impenetrabili del Novecento, con un sistema tentacolare gestito interamente dal dittatore Enver Hoxha. Il PPSH e la Sigurimi, l’apparato di sicurezza, scandivano e organizzavano interamente gli usi, i costumi e le abitudini del popolo albanese. Morto il dittatore e crollato il sistema, lentamente il paese ha abbracciato il modello democratico lasciando tuttavia enormi cicatrici nella popolazione. Il musicista Redi Hasa ci fa da Virgilio in quadro e ci racconta della sua esperienza quando, nel 1997, scappò dalla guerra civile per raggiungere le coste pugliesi. Il suo sguardo si connette ad altri artisti, musicisti, cantori che davanti alla mdp mostrano ricordi e rimpianti, ansie e riflessioni.
La narrazione non punta esclusivamente a condannare il regime di Hoxha quanto a far emergere la difficoltà di un popolo nel fare i conti con la propria memoria, nel non subire i sensi di colpa e nell’accettare a fatica un momento in cui la Storia ha completamente ribaltato le prospettive esistenziali facendo emergere le contraddizioni. L’opera di Esmeralda Calabria, grande montatrice al suo debutto da unica regista nel film di lungometraggio, vive di un linguaggio intimo e discreto. Il protagonista principale, che ciclicamente governa la narrazione, ha nella musica il suo connettore emotivo, quell’elemento che lega le tradizioni della cultura folkloristica albanese al dato esperienziale. I racconti del periodo della dittatura sono giocati con piani ravvicinati in cui la mimica facciale e i sentimenti di chi testimonia la fanno da protagonisti. Le immagini di repertorio entrano ed escono dal quadro e ci raccontano la plasticità dell’apparato comunista con il capo al vertice. Sono passati quasi quarant’anni dalla morte di Hoxha e l’Albania vive da decenni un nuovo modo di viversi e raccontarsi. Questo Parlate a bassa voce ci fa comprendere come ancora molte generazioni stiano rincorrendo a fatica la missione di mettere insieme passato e futuro senza più fare i conti con il senso di colpa e il dolore. Un documentario da scoprire, una cartolina sofferta di un paese in piena vita e in piena maturazione.
Giammario Di Risio – close-up.info
Quali tracce lascia un regime dittatoriale durato 50 anni? Il film documento di Esmeralda Calabria, dal titolo Parlate a bassa voce, presentato al Torino Film Festival, tenta di rispondere a una simile domanda, dando voce a chi ha vissuto almeno parte di quei 50 anni in Albania, guardandoli dalla prospettiva di oggi. Davanti alla macchina da presa, così, la direttrice del Teatro di Scutari racconta un episodio esemplare, di quando c’era il «comunismo», che tuttavia comunismo non era, sottolinea lei, ma una follia totalitaria senza significato. Prima di andare in scena, da giovane, badando che nessuno la scorgesse, l’attrice era solita fare il segno della croce. Nascosto da un grappolo di riflettori, una sera, un fonico la vede. A spettacolo finito, egli si avvicina e dice: «Rita, non lo fare mai più. Perché se vedono che io ti ho vista, e non rivelo la cosa al Partito, sono spacciato». Questa è soltanto una delle testimonianze che Esmeralda Calabria raccoglie, attraverso le voci, ancora oggi a voce bassa, di chi ha vissuto sia il regime comunista, sia il passaggio alla democrazia (…)
Nel suo viaggio nei labirinti della memoria dell’Albania di oggi, in parte migrata in Puglia, Esmeralda Calabria pone così la questione cardinale, quella di rivitalizzare lo sguardo. Renderlo davvero punto di vista, ossia scambio di prospettive, quindi discorso che ne organizzi il senso. Sguardo capace di incidere contro il vuoto contemporaneo di una comunicazione pura asserzione di «verità», le quali più si motivano e più appaiono indimostrabili, poiché prive di confronti dialettici che supportino oppure smontino il contenuto di realtà proposto. Artisti, intellettuali, contadini, ex prigionieri politici, donne e uomini che hanno vissuto il regime albanese prima del 1990, e poi il transito democratico, sollecitati dallo sguardo di Esmeralda Calabria, discutono e scambiano, fra loro e con noi spettatori, il rapporto dialettico tra la Storia con la maiuscola e la propria vita con la minuscola, che si rovesciano l’una nell’altra. Il problema dunque è la memoria: lo sguardo della memoria. Il punto di vista che instauri un racconto in grado di infondere senso al passato che ancora incombe e pesa. La narrazione che ciascun testimone offre all’obiettivo della macchina da presa fatica però a organizzarsi in racconto. Stenta a farsi sguardo. Il motivo è chiaro. C’è un punto di vista di fondo che non si riesce a sradicare. La Storia prima del 1990, quella guidata violentemente dal Partito, non è chiusa: qualcuno sostiene persino che al potere ci sono ancora quelli di ieri, indaffarati adesso a cancellare i segni del passato. Ruspe del governo, implacabili, hanno appena abbattuto il Teatro Nazionale di Tirana, dove il Partito si riuniva e celebrava anche i suoi lugubri processi. Assieme alle parate ideologiche, anche 80 anni di storia dell’arte scenica albanese, con la sartoria e i costumi, ridotti in polvere per cancellare il passato che non deve organizzarsi in racconto, ossia acquisire comunque senso. In breve, è urgente soltanto dimenticare. E basta (…) Il finale, allora, è tra i più belli. La donna che invoca la maestà e dignità del popolo di Albania, il suo secolare lavoro, si affaccia alla porta di casa, per chiedersi: «E’ entrato qualcuno in giardino?». Il giardino quindi è davvero vuoto, ossia indifeso, e ciascuno ormai può metterci piede. Il film si chiude su questo interrogativo. Chi è entrato in giardino? Il passato che si vuole soffocare? Il tempo che è necessario rivendicare? Il futuro che affonda nella pietra del dolore, o quello che affiora dalla sabbia del torpore? Soltanto una dialettica razionale di sguardi sul passato e sul presente può condurre il transito e il passaggio. Come Parole a bassa voce, questo film, cerca di fare.
Flavio De Bernardinis – micromega.net