La maman et la putain

Jean Eustache

Alexandre è disoccupato, arrabbiato e disilluso, bighellona per i caffè e vive a casa di Marie, sua amante occasionale. Un giorno Alexandre incontra la disinibita infermiera Veronika e tra i due scatta la passione. Ben presto prenderà forma un complesso rapporto a tre in cui i sentimenti e le certezze di Alexandre, Marie e Veronika saranno messe prepotentemente in discussione. Amori, tradimenti, libertà sessuale e soprattutto esistenziale. Tra sogno ed uso del tempo reale, uno dei film più sperimentali e letterari di Jean Eustache.

Francia 1973 (210′)
CANNES 26º – Grand Prix Speciale della Giuria
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…Il più celebre film di Jean Eustache (morto suicida nel 1981) è opera esemplare di un autore che cerca di andare oltre gli stilemi della Nouvelle Vague, riprendendone alcune peculiarità (tra cui uno dei suoi attori simbolo, Jean-Pierre Léaud) ma tentando di percorre nuove strade espressive. Il film, inoltre, è una brillante e memorabile testimonianza del post ’68 di giovani generazioni smarrite che hanno visto deluse le proprie aspettative e vivono con disagio la loro esistenza tra moti rivoluzionari sopiti e pulsioni borghesi. I tre protagonisti, dunque, si ritrovano a vivere in una sorta di limbo emozionale, fragili e sfrontati, confinati nelle loro stanze e armati esclusivamente delle parole con cui tentano di esorcizzare un’inquietudine esistenziale lacerante. Anche Parigi appare come un luogo crepuscolare, plumbeo e per certi versi ostile, una sorta di prigione da cui è impossibile allontanarsi, seducente e mostruosa al contempo. In questo modo anche gli ambienti diventano espressione visiva di una situazione di stallo permanente con cui frustrazioni, sogni e desideri sono costretti a confrontarsi, evolvendosi o ridimensionandosi. Cinema audace, alieno a qualsiasi moda o compromesso estetico/contenutistico (con tanto di abbozzo di un mènage a trois), di ampio respiro sociologico e valore cinematografico. La durata torrenziale (quasi tre ore e mezza) non è mai un limite di un prodotto anomalo ed estremamente vitale, toccante e al contempo divertente. Il titolo fa riferimento ai due modelli femminili cui l’immaginario maschile spesso e volentieri tende e che Alexandre attribuisce alternativamente a Marie e Veronika.

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   La poetica del regista, erede di quell’approccio ribelle impartito dai padri della Nouvelle Vague, si attualizza in una riflessione sul linguaggio filmico che è sì debitrice a Godard, Truffaut e Rivette, ma anche dotata di un’identità specifica, in qualche modo opposta alla visione del gruppo dei Cahiers. Eustache mette in scena il menage à trois del pigro e narcisista Alexandre, interpretato da Jean-Pierre Léaud, con l’infermiera Veronika e la commessa Marie. Quella che dovrebbe essere una semplice commedia romantica si rivela ben presto un gioco spaziale basato sui tre personaggi principali…

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   La Maman et la putain era una produzione stile nouvelle vague, con un piccolo budget, una troupe ridotta, girato in 16mm gonfiati a 35… e qualche differenza. In un caso esemplare di collaborazione tra produttore e regista, Pierre Cottrell creò le condizioni che permisero a Eustache di lavorare con il massimo della professionalità concessa dai pochi mezzi a disposizione, con un grande direttore della fotografia, Pierre Lhomme (che aveva lavorato con Chris Marker e Robert Bresson), e senza un briciolo d’improvvisazione. La sceneggiatura di Eustache, consegnata a Cottrell solo pochi giorni prima dell’inizio della lavorazione, era composta interamente da dialoghi, che dovevano essere pronunciati alla lettera. “La ripresa giusta è quella in cui gli attori riescono a dire le loro battute” disse a chi scrive queste righe. Se si è molto insistito sui complessi passaggi tra realtà e finzione, scarsa attenzione invece è stata prestata al fatto che Eustache stesse scrivendo per i suoi due interpreti principali, Jean-Pierre Léaud e Françoise Lebrun: “Se avessero rifiutato di lavorarci non avrei girato il film”. Così ciascun attore reagì in modo diverso: Léaud, come sempre, attraverso una sorta di mimetismo con il suo regista; Lebrun recitando contro il suo personaggio; quanto a Bernadette Lafont, nuova all’esperienza e incurante del contesto, riversava nella sua recitazione una rabbia che non aveva mai mostrato prima. C’era amore nel modo in cui Eustache li filmò, e ne ricavò interpretazioni uniche. Ora che lo scandalo (il linguaggio volgare, le situazioni scioccanti), la confusione a proposito di autobiografia e autofiction, il mito dell’auteur maudit (dopo il suicidio di Eustache) e l’iperbole (“il miglior film” degli ultimi decenni, secoli, di tutti i tempi) si sono affievoliti con il passare del tempo, La Maman et la putain può – si spera – essere visto per il suo vero valore. È un film d’attualità, un distillato culturale del periodo post-nouvelle vague e post-Maggio francese – e di quel periodo è una delle grandi opere, accanto ai contemporanei di Eustache: Rivette (il cui Out 1 fu per lui un grande stimolo), Moullet, Pialat, Garrel, Téchiné e Rozier. Nel suo andirivieni tra naturalezza e teatralità, il film si nutre della consapevolezza del passato del cinema, tra Renoir e Murnau, entrambi richiamati con discrezione.

Bernard Eisenschitz

  …A prima vista La maman et la putain può apparire la “solita” commedia francese sulle relazioni interpersonali, e sulle dinamiche della coppia. I luoghi sono i bistrot, le chiacchiere sono sempre le stesse, si pasteggia con superalcolici o aperitivi, si discute fino allo sfinimento, al punto che nella dialettica del campo controcampo finisce per entrare anche l’occhio diretto verso lo spettatore, non per coinvolgerlo nell’articolazione del discorso, ma semmai per fargli comprendere come di quel discorso sia parte anche involontaria. Ma Eustache, che di lì a neanche un decennio arriverà a togliersi la vita, non ha tempo davvero per lasciarsi andare alle ovvietà della commedia amorosa, e trascina i suoi personaggi verso un dramma plumbeo, chiuso, ovattato, doloroso perché capace di scavare nella tensioni più intime, nei traumi che nessuno può pensare di “risolvere”. E allora si sprofonda nella solitudine senza speranza di Alexandre, incapace di trovare una dimensione che gli permetta di risolversi, e perso in un’erudizione che è solo vacua esibizione di un sapere che perso il senso della parola è divenuto ciacola, inutile accumulo di nozioni prive di una loro determinazione reale. Il suo vagare emotivo è la chiave d’accesso per comprendere l’umanesimo di Eustache ma anche e soprattutto la sua volontà di imprimere su pellicola lo stordimento di una generazione e di una classe sociale che non ha trovato risposte, e non sa davvero porsi dubbi concreti – o non ne sa reggere il peso. La maman et la putain, capolavoro straripante del cinema francese ed europeo degli anni Settanta, si permette di fingere l’improvvisazione (è notorio come i dialoghi fiume fossero scritti in modo certosino da Eustache) perché ha capito che l’attribuzione di un senso per se stessi nella “società dello spettacolo” è già di suo finzione. Resta il testamento più lucido, e allo stesso tempo sanamente ubriaco, di un’epoca sperduta e travolta dal riflusso dell’illusione, e a quasi cinquant’anni dalla sua realizzazione l’opera somma di un cineasta straordinario nella sua disperazione (…) Un’opera che con estrema lucidità sapeva cogliere la disillusione della borghesia parigina a ridosso della fine del Sessantotto, e le contraddizioni di una società che si diceva “libera” ma non sapeva mettere in pratica la libertà.

Raffaele Meale – quinlan.it

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