Iran, 2001. Saeed, un comune padre di famiglia, intraprende la sua ricerca religiosa per ripulire la città santa di Mashhad dalle prostitute, strangolandole col loro velo. Rahimi, un giornalista arrivata da Teheran per investigare sugli omicidi, si scontra con pregiudizi sessisti ed una polizia apatica e trova collaborazione solo in un reporter locale. Intanto la notizia dei crimini del cosiddetto “Ragno” comincia a diffondersi tra la popolazione.
Les nuits de Mashhad
Danimarca/Germania/Svezia/Francia 2022 (117′)
CANNES 75°: premio come migliore attrice
Holy Spider è un thriller, bello quanto brutale, tenebroso quanto appassionante; un film eminentemente di genere, ma ad altissimo potenziale, che costringe a riflettere sulle matrici della ‘punizione esemplare’ di Mahsa Amini e di tante sue consorelle, sulla profonda misoginia (l’espressione ‘maschilismo’ è inadeguata) che ispira la dittatura religiosa, culturale e politica degli Ayatollah… Ali Abbasi è iraniano di nascita, ma naturalizzato danese. Il suo film è ovviamente proibito in Iran, ma almeno non rischia la galera come i suoi colleghi rimasti in patria. Holy Spider usa i codici hollywoodiani per ricostruire una cronaca degli anni 2000-2001, quando il regista non aveva ancora lasciato il Paese. Il serial killer Saeed Hanaei, rispettabile padre di famiglia e di saldi principi religiosi, strangolò col loro chador ben sedici prostitute prima di essere arrestato. E l’estetica hard di Abbasi non fa rimpiangere il suo notevole Border-Creature di confine, trionfatore a Un Certain Regard nel 2018.
Siamo nella città santa di Mashhad (ricostruita di necessità in Giordania), il killer continua a far vittime e da Teheran arriva la giornalista Rahimi, determinata a capire perché le indagini ristagnano. Uno stereotipo da cinema mainstream, certo, ma serve a farci capire perché a una donna senza marito si possa rifiutare una camera d’albergo e perché una lavoratrice licenziata per aver denunciato il proprio direttore molestatore passi universalmente per sgualdrina. Il killer (Mehdi Bajestani), ex combattente devoto alla moglie, ai figli e all’Imam Reza, si sente in missione per conto di Allah, vuole cancellare dai luoghi sacri vizio e peccato. Peccato che è sempre e soltanto femmina: il poliziotto che dirige le indagini è pronto a stuprare la giornalista sgualdrina con la certezza del giusto. Le stesse famiglie delle vittime ‘impure’ sono persuase che la ‘ripulitura’ del killer sia un aiuto supplente per le forze dell’ordine. Processato, il ragno santo (così soprannominato perché attirava le povere donne nella sua rassicurante ragnatela domestica) diventa un eroe per il suo quartiere e per buona parte dell’opinione pubblica, protetto e rassicurato dalle autorità (truffaldine anche con lui, per opportunismo politico) nonché modello d’ispirazione per il figlio ragazzino. “Non volevo girare un film su un serial killer ma su una società killer seriale”, dice il regista. Luoghi comuni, come ha scritto qualcuno? Ma quando mai. I riferimenti occidentali del primo noir persiano di sempre (persiano di autore, non di produzione) sono sterminati: Zodiac per il narcisismo del killer e Collateral per l’angosciosa oscurità urbana, Summer of Sam, perché no, e il più bello di tutti, In the Cut di Jane Campion, che guarda caso non cita nessuno. Ma l’efferato rituale di morte di un cittadino perbene, reiterato con la sprezzante umiliazione dell’essere umano donna, toglie il fiato, livido e senza sconti grazie alla fotografia di Nadim Carlsen. Per molti critici maschi la ‘condizione femminile’, come la chiamano, è un tema banale e scontato: solo le metafore, il linguaggio indiretto, darebbero dignità a un film d’autore. Vivere in un Paese in cui il femminicidio è ordinaria amministrazione li ha forse anestetizzati?
Teresa Marchesi – huffingtonpost.it
Dopo aver vinto la sezione Un Certain Regard nel 2018 con l’interessante Border, il regista nato in Iran ma naturalizzato danese Ali Abbasi torna sulla Croisette dall’ingresso principale in Concorso con Holy Spider. Il film, un poliziesco dall’impianto molto classico, porta in scena la storia vera di Saeed Hanei, serial killer di prostitute che venne impiccato nel 2002 per i 16 delitti compiuti: l’uomo disse alla Corte che lo giudicò di agire in nome di Dio per rimuovere il peccato e la corruzione dal suo Paese e che era dispiaciuto di non aver potuto “fare” (dunque uccidere) di più. Una parte dell’opinione pubblica iraniana si schierò al suo fianco, vedendolo come una sorta di eroe che riportava giustizia in ciò che era sfuggito all’ordine morale. Ci furono anche degli emuli, ovvero qualche omicidio a lui ispirato a ridosso degli eventi, ma fortunatamente rimasero pochi. La legge in compenso lo condannò a morte. È esattamente questa la vicenda raccontata nel film in cui il regista aggiunge però l’importante personaggio finzionale di una giornalista che si mette in gioco in prima persona per catturare il serial killer, l’eroina della storia insomma. In un film che non spicca per peculiarità narrative e in cui tutto procede come da copione (se fosse un film o un telefilm americano avremmo visto e rivisto cento volte questo intreccio), Holy Spider si fa notare per il tasso di brutalità che mette in scena e con cui esordisce fin dalla prima sequenza, quella dell’uccisione di una donna. Che, prima di uscire di casa per immergersi nella notte di Mashhad – città a circa 1000 km da Teheran e sede religiosa di grande importanza in cui si svolsero i fatti – mette a letto il suo bambino dicendo che la mamma tornerà prima che lui si svegli. Ma non tornerà più. La donna ha un paio di clienti, si fa di crack, vaga in una notte squallida circondata dal degrado, poi incontra proprio l’uomo sbagliato che la porterà a casa sua per strangolarla. È, ovviamente, il killer (interpretato da Mehedi Bajestani) che però in questa sequenza non vediamo in faccia: Abbasi ce lo mostra solo nell’ombra e di spalle sul suo motorino, facendoci inizialmente presupporre che scopriremo la sua identità solo alla fine. La panoramica che il regista realizza dopo questo primo delitto, che si allarga dal motorino in strada alle luci di Mashhad e simbolicamente a tutto l’Iran, è programmatica e mette in chiaro gli intenti: la storia raccontata è emblematica. Non solo una vicenda individuale, ma sintomatica della misoginia che serpeggia in un Paese, del fanatismo di alcune fasce della popolazione che vedono la donna come inferiore, dello scarso interesse delle Autorità rispetto alla materia….
Elisa Battistini – quinlan.it