La verifica incerta è quella che consiste nel maneggiare scarti di pellicola, film destinati al macero, utilizzando lo strumento del montaggio per dimostrarne la possibilità di esistere ancora, al di là delle volontà industriali secondo i cui vincoli quelle immagini erano state create.
Italia 1964 (30′)
Baruchello e Grifi avevano raccolto 150 mila metri di pellicola di film di consumo degli anni Cinquanta e Sessanta per lo più americani, destinati al macero. Queste copie, che originariamente erano cinemascope 35mm, vennero rimontate in moviola per poi essere controtipate su un internegativo 16mm. In tal modo essi diedero loro nuova vita attraverso la costruzione di un senso, che in maniera subliminale svuotava di senso l’immagine originaria spesso sovvertendone il significato.
Verifica incerta è un lungo détournement, un gioco che non è solo tale, è il disvelamento progressivo dell’immagine come veicolo dell’ideologia e non viceversa, è l’applicazione della teoria del montaggio di Ejzenstein a un materiale non solo già esistente, ma anche ideato per veicolare un messaggio completamente opposto. L’”arrivano i nostri” diventa un parapiglia ridicolo, il languore sentimentale del maschio alfa di turno può celare pulsioni omosessuali, la famigliola sorridente a bordo del proprio aeroplano osserva divertita il bombardamento di una nave ammiraglia. Giocando su opposizioni anche evidenti e facili – agli occhi di oggi – Baruchello e Grifi firmano un’opera non solo spiazzante e in grado di costringere lo spettatore a porsi qualche interrogativo teorico, ma anche godibilissimma e persino spassosa. In questo senso agisce anche il materiale a disposizione dei due artisti, perché le pellicole presentano un cast di prim’ordine, da Gregory Peck a Clark Gable, da Jennifer Jones a Charlton Heston, James Mason, Leslie Caron.., ma leggere Verifica Incerta come puro divertissement dadaista è un errore, perché non c’è attrazione cinefila a guidare questa rimessa in campo dell’immagine preesistente, gli autori non lavorano quelle immagini perché rappresentano qualcosa a cui sono emotivamente legati, anche perché il materiale a disposizione non lo hanno scelto, se lo sono trovato tra le mani mentre andava al macero.
L’inserimento all’interno di un film, che non ha immagini create ex novo, di alcuni fotogrammi che ritraggono Marcel Duchamp (amico e mentore di Baruchello) nella sua casa parigina sembra proprio voler sottolineare la volontà di distruggere la prassi per riappropriarsi del senso intimo dell’immagine. Sono gli unici momenti in cui il film cerca una connessione con il reale, con il Tempo e la Storia, distaccandosi da un percorso netto in cui il già creato è ripreso, fatto a pezzi e restituito a una verità sempre falsa, sempre in movimento, sempre riproducibile e possono essere interpretati come una presa di posizione politica, che non ha nulla di giocoso, né di strettamente dadaista. Perché all’epoca non esisteva un’opera così radicale nello sverginare lo sguardo infantile del cinefilo attraverso le immagini che si replicano, i brandelli di dialogo reiterati, le inquadrature che possono funzionare ruotate a 180°, come se lo specchio non deformasse la realtà, ma la ribadisse, la moltiplicasse. Come ha sottolineato Umberto Eco, dopo la proiezione del film nel 1965 a Palermo in occasione del convegno del Gruppo 63 per la definizione del “romanzo sperimentale”, “un oggetto di demistificazione così profondo non può che solleticare l’istinto iconoclasta che si cela nella reiterazione del culto dell’immagine.” Era già iniziata la Pop Art..
Cristina Menegolli – MCmagazine 78