Condannato da un tumore, l’anziano impiegato Watanabe vede sgretolarsi tutte le sue certezze. All’iniziale smarrimento segue la decisione di compiere un’azione significativa e riabilitante: si batterà per la bonifica di un terreno paludoso, su cui possa essere costruito un parco giochi.
Ikiru
Giappone 1952 (143′)
Il film è diviso in due parti. Nella prima parte lo spettatore segue il piccolo funzionario Kanji Watanabe (Takashi Shimura) che scopre di essere in punto di morte a causa di un tumore, e termina con la sua decisione di combattere insieme ad altri perché un terreno abbandonato venga trasformato in un parco giochi, un’azione utile alla società con cui spera di dare un senso alla propria vita. La seconda parte, molto più breve, si svolge dopo la morte di Watanabe e rappresenta le diverse reazioni alla sua vittoriosa battaglia.
Malato di tumore, anziano funzionario giapponese si dedica interamente all’impresa di trasformare una zona palustre in un campo di giochi per bambini. Quando muore, soltanto le madri dei bambini si ricordano di lui. Potente affresco di vita giapponese con una struttura narrativa insolita (per l’epoca), permeato di un’angoscia esistenziale che rimanda a Dostoevskij, indimenticabile ritratto di un uomo solo davanti alla morte, è uno dei grandi film sulla vecchiaia in cui convivono emozione e rigore, realismo e simbolismo, lirismo e sarcasmo.
Il Morandini
«Che cosa faresti se avessi solo sei mesi da vivere?» Poco più che quarantenne, Akira Kurosawa (anche sceneggiatore con Shinobu Hashimoto e Hideo Oguni) traccia un bilancio esistenziale cupo e straziante, ponendo al centro della narrazione un protagonista costretto a fare i conti con l’inettitudine e il distacco che hanno contraddistinto la sua intera esistenza. I ricordi, i rimpianti («Non so cosa ho fatto della mia vita in tutti questi anni»), il senso di totale inutilità che attanaglia l’uomo di fronte alla prospettiva del nulla: tra realismo estremo (la degenerazione mentale e fisica di Watanabe) e folgoranti lampi onirici (la rievocazione di un passato doloroso, ma comunque accarezzato perché ormai irraggiungibile), l’iter di consapevolezza e di formazione morale procede inarrestabile, ancor più significativo perché accostato alla potenza devastatrice della macchina burocratica, tra frustrazioni (indimenticabile la sequenza iniziale, con i clienti rimbalzati da un ufficio all’altro in un imbarazzante scarico di responsabilità), ipocrisie e apatia. Raramente l’alienazione del quotidiano e la fondamentale inconsistenza emozionale dell’essere umano hanno trovato rappresentazione tanto compiuta: attraverso uno stile essenziale, ma non scevro da affascinanti e parossistici stilemi visivi, e una struttura funzionalmente complessa e discontinua (flashback, interruzioni cronologiche improvvise e inaspettate), Kurosawa stigmatizza il (non) senso di vivere, il terrore paralizzante di fronte alla morte e la necessità di essere ricordati per le proprie azioni. Desiderio illusorio, che sarà scempiato dall’indifferenza imperante in un finale amarissimo e quasi insostenibile. Rigoroso, definitivo, imprescindibile. Molti i momenti da antologia: impossibile non citare la sequenza della visita medica, in cui un impietrito Watanabe, attraverso il colloquio prima con un paziente e poi con il dottore, prende coscienza del suo fatale destino. Semplicemente perfetto Takashi Shimura Premio speciale al Festival di Berlino.
longtake.it
Vivere è la prova più evidente della capacità di Kurosawa di comunicare idee provocatorie attraverso l’uso di un’innovativa struttura generale. Si può affermare senza timore di smentita che questo film contiene “due momenti chiave”, la prima e la seconda parte. Anche se nelle opere del regista abbondano scene, immagini e gesti straordinari, spesso quello che colpisce di più dei suoi film è l’audacia del progetto generale. Di frequente un messaggio banale e una cruda visione del mondo vengono affermati esplicitamente prima di essere persi di vista o addirittura contraddetti con l’emergere della struttura complessiva. In Vivere l’etica semplicistica del protagonista sembra meno definita se collocata in un contesto più ampio: le scene finali suggeriscono che le sue buone intenzioni hanno avuto ben poco impatto su una cultura i cui problemi sono troppo radicati per essere risolti con riforme liberali e con le azioni di individui spinti dalla generosità.
Brad Stevens
Avventura interiore di un uomo comune che lotta contro la morte e il fallimento della propria esistenza, ritratto sarcastico di una categoria sociale (la burocrazia), Vivere ci sorprende per la varietà e la profondità dei temi affrontati, l’audacia della struttura narrativa, la sconvolgente carica emotiva che lo collocano accanto ai film-bilancio più celebrati della storia del cinema (L’Ultima Risata, Quarto Potere, Umberto D., Il posto delle fragole). Lirismo e satira, grazia e crudeltà (la visita medica, la via crucis burocratica di Watanabe), realismo, onirismo (i flashback) ed espressionismo (il viaggio notturno nei quartieri di piacere di Tokyo) si fondono in una sintesi prodigiosa. Uno dei miracoli di questo ‘Citizen Watanabe’ è che riesce a trattare della malattia senza deprimerci, comunicandoci una forsennata voglia di vivere. Anche se c’è forse qualche scompenso, nel film tutto viene riscattato dall’emozione, dall’umanità delle situazioni e dei personaggi.
Aldo Tassone
Vivere è forse il film più bello di Kurosawa, il più intelligente (la sua sapienza strutturale mi lascia a bocca aperta) e il più emozionante fra i film giapponesi che ho potuto vedere. Forse continuo a preferire la pura musica giapponese dell’ispirazione di Mizoguchi, ma debbo arrendermi davanti all’ampiezza delle prospettive intellettuali, morali, estetiche aperte da un film come Vivere, che mette in luce dei valori incomparabilmente più importanti sia nella sceneggiatura che nella forma. Mi domando se, invece di considerare il cosmopolitismo di Kurosawa come un compromesso sia pure di qualità superiore, non dobbiamo al contrario considerarlo come un progresso dialettico che indica l’avvenire del cinema giapponese.
André Bazin
Vivere è la ricerca di un’affermazione. Affermazione che sta nel messaggio morale del film, contenuto nel titolo: Ikiru è il verbo intransitivo che significa ‘vivere’. Questa è l’affermazione: la vita è abbastanza. Ma l’arte del semplice vivere è una delle più difficili da padroneggiare. Quando si vive, bisogna vivere pienamente – è questa la lezione appresa da Kanji Watanabe, il piccolo funzionario la cui vita e la cui morte conferiscono un senso al film.
Donald Richie
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