È ancora possibile comprendere i fatti di Genova del 2001? Lo sguardo è sulle prospettive della memoria, attraverso generazioni a confronto. Gli avvenimenti del G8 divengono cronistoria amara e dolorosa del frantumarsi di un ideale, ma quel sogno è ancora vivo, perché presenti sono ancora i temi e i problemi di quei giorni.
Sono passati vent’anni da Genova 2001. È ancora possibile comprendere i fatti di allora? Vent’anni sono il tempo con cui qualcuno che nasce diventa una persona: oggi c’è un’intera generazione che all’epoca non era ancora nata. Vent’anni sono il tempo con cui un ragazzo diventa adulto e un adulto diventa anziano. Ci sono ben due generazioni che hanno vissuto quell’esperienza in un modo o nell’altro, e vent’anni dopo non riescono a considerarla conclusa. Il sogno di Genova 2001 è ancora vivo, perché sono ancora presenti i temi e i problemi di quei giorni: l’ineguaglianza crescente, la finanza che concentra la ricchezza e le risorse in poche mani rendendo precaria la vita di molti, la distruzione dell’ambiente, le grandi migrazioni. Questioni attuali ancora oggi, solo bisognose di risposte ancora più urgenti.
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Esistono delle immagini appartenenti che rimangono indelebili e nitide nel loro essere emblematiche di un determinato evento, spesso, notoriamente carico di significati sviluppatesi oltre la staticità di un’istantanea. Immensi cortei, forze dell’ordine rigidamente schierate e piazze colme di migliaia di anime, costituiscono l’assortito repertorio di uno dei momenti più enigmatici del nostro recente passato: il G8 di Genova del 2001. A mettere insieme, tra storia e biografia, le testimonianze dirette di quanto accaduto, è Se fate i bravi, di Stefano Collizzolli, scritto con Daniele Gaglianone e Fabio Geda, presentato alle Notti Veneziane. Gli eventi del G8 sono amaramente conosciuti e le motivazioni per cui milioni di persone hanno scelto di riunirsi, in nome della disuguaglianza sociale ed economica e dei danni ambientali, sono ben focalizzate. A non essere ancora del tutto palese, però, è come questa esperienza non si possa considerare chiusa.
Sono passati poco più di venti anni e quelle vicende così vibranti di crudeltà, scelte sbagliate e respiri mozzati, sono divenute cardine di una svolta, il punto di non ritorno con il quale un’intera generazione ha dovuto affannosamente convivere, per poterlo assorbire e metabolizzare. Ma questi venti anni, apparentemente un lasso di tempo bastante per attuare la cosiddetta ultima fase dell’elaborazione del trauma, diventano inutili, non sufficienti. per comprendere un qualcosa che in realtà non si è mai compreso veramente. Allo stesso tempo però due decenni divengono insostenibilmente lunghi da riporre in un voluto dimenticatoio, tanto da tramutarsi in spinta necessaria per iniziare finalmente a raccontare. Ed è dall’incapacità di cogliere la razionalità e dall’auto percezione di smettere di considerare ciò che è stato vissuto come luogo astratto in cui isolarsi che il documentario svela subito l’intenzionalità, proponendo un doppio piano di lettura, divergente quanto profondamente convergente. A fare da discriminante al duplice livello di testimonianza è il destino, la fatalità beffarda e cieca che ha fatto di soli dieci metri di distanza, un abisso di tragedia e dolore. Sì, perché la sorte dei principali testimoni, due ragazzi come tanti, agglomerati nel medesimo luogo di contestazione, è stata del tutto differente: benevola, seppure non priva di conseguenze, e tremendamente disumana e straziante.
Due resoconti diversi, ma animanti dalla stesse premesse. Quello del narratore che sceglie di compiere un viaggio a ritroso, riesumando i propri filmati dell’epoca, commentando con la cognizione di oggi, le sensazioni del passato e strutturando così un racconto che è testimonianza del trascorso e anche rinnovata riflessione, ripresa nell’esatto momento in cui tutto stava avendo inizio, nel sovrapporsi di passato e presente. Quello invece tormentato e agghiacciante, colmo di barbarie ingiustificate e ingiustificabili, di fatti sdegnosamente risaputi e dei quali risulta complesso dare un’opinione distaccata. Nonostante la discrepanza oggettiva di come siano stati vissuti quei giorni, emerge in entrambi i casi il conformarsi della cronistoria amara e dolorosa del frantumarsi di un sogno, di un ideale, del prendere atto che, nonostante tutto, la realtà non sarebbe mai cambiata. E di pari passo al racconto, Se fate i bravi mette in campo anche una riflessione legata alle raffigurazione degli avvenimenti del G8 e sulla reale difficoltà di riuscire a esplicitarne la potenza simbolica, per poter prima comprendere e poi risolvere una storia finora non portata a termine. Il film, nel mescolarsi di frammenti documentali di varie tipologie consegna una traccia ibrida e convincente, che va oltre la crudezza visiva di Diaz – Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari (2012) e la diplopia istituzionale del materiale di repertorio dei media tradizionali, avvalorando come Genova sia diventata paradigma di ciò che è stato, di ciò che sarebbe dovuto essere e di tematiche che dovranno ancora essere.
Miriam Raccosta – cinematografo.it