Nella Berlino devastata del dopoguerra, il piccolo Edmund (Edmund Moeschke) vive con il padre malato di cuore presso un’abitazione adibita dallo Stato a raccolta delle famiglie sfollate. Le sue giornate trascorrono all’insegna della ricerca di cibo in città, tra lavoretti in nero e compravendita di oggetti privati. L’incontro con un vecchio maestro pedofilo e nazista (Erich Gühne) porterà Edmund a compiere, innocentemente, un gesto terribile.
Italia 1947 (75′)
Nella Berlino sconfitta e distrutta, avvolta in un’atmosfera di incubo e di fame, un ragazzo tredicenne, Edmund, deve provvedere alle necessità della famiglia, composta dal vecchio genitore ammalato, dal fratello maggiore, già appartenente all’esercito ed ora fuggiasco, e dalla sorella, che la sera frequenta gli ambienti militari alleati. Il piccolo Edmund, per istigazione del suo vecchio maestro, al quale si rivolge per aiuto, avvelena il padre: i deboli e gli inutili debbono essere eliminati perchè i più forti, i migliori si salvino. Preso dal rimorso e dal dubbio, ritorna per avere chairimenti dal maestro che lo scaccia trattandolo da assassino. Abbandonato da tutti, brancola per le vie distrutte della città, passa di fronte ad una chiesa, dalla quale, col dolce suono di un organo, si sprigiona una promessa di vita; ma tira avanti. Salito sul campanile, vede la sua casa, dalla quale stanno portando via il padre morto e, disperato, si getta nel vuoto.
Terza e ultima grande opera della cosiddetta “trilogia della guerra” di Roberto Rossellini che, in totale continuità stilistica e tematica con i precedenti Roma città aperta (1945) e Paisà (1946), scatta un’istantanea dell’“anno zero” della Germania post seconda guerra mondiale, descritta come una sorta di limbo dove la legge e la morale sono sospese e l’umanità vaga disorientata e senza speranza. È il film dove il pessimismo radicale rosselliniano emerge chiaramente per la prima volta (il regista aveva appena perso il figlio Romano, al quale è dedicata la pellicola), descrivendo, attraverso l’uso simbolico di una Berlino ridotta a scheletro urbano, una crisi di valori esistenziali che porterà al tragico gesto finale del protagonista. Sui responsabili di questa crisi morale Rossellini è abbastanza vago e sbrigativo (l’incipit iniziale si scaglia contro “l’ideologia”, ma nel film non c’è un analisi approfondita del nazionalsocialismo), ma al regista romano la Storia non interessa come disciplina scientifica, quanto piuttosto come quadro entro cui ambientare la sua visione artistica della vita: ecco allora che Germania anno zero assume un senso di chiusura tragica sull’assenza di morale nell’epoca post bellica. Semplicemente strepitoso. Gran Premio al Festival di Locarno, dove ottenne anche un riconoscimento per la migliore sceneggiatura. Scritto dal regista con Max Colpet, Carlo Lizzani e Sergio Amidei partendo da un’idea di Basilio Franchina (non accreditato). Grande successo di pubblico e critica in Francia e negli Stati Uniti, assai più contenuto in Italia.le.
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Berlino 1946. Tra le macerie della città vive il dodicenne Edmund che convive con la sorella, il padre malato e un fratello maggiore che si nasconde per timore di essere arrestato in quanto ex soldato nazista. Il bambino cerca con ogni mezzo un lavoro ma viene anche in qualche modo attratto dal suo ex maestro, un pedofilo che gli inculca l’idea che i deboli vadano soppressi. Il padre di Edmund è un debole. “Quando le ideologie si discostano dalle leggi stesse della morale e della pietà cristiana, che sono alla base della vita degli uomini, finiscono per diventare criminale follia. Persino la prudenza dell’infanzia viene contaminata e trascinata da un orrendo delitto ad un altro non meno grave nel quale, con l’ingenuità propria dell’innocenza, crede di trovare una liberazione dalla colpa”. È questa la didascalia che segue i titoli di testa e precede le immagini della capitale tedesca devastata esplicitando l’auspicio dell’autore affinché si intervenga per aiutare i bambini tedeschi, che hanno vissuto gli orrori della guerra, a trovare una speranza nel futuro. Quello che Rossellini ci propone in questo film (in cui si distacca dal cinema resistenziale per offrirci un’indagine socio-psicologica di taglio diverso) è il ritratto di un bambino inesorabilmente e disperatamente cresciuto ma che vorrebbe tornare ciò che è stato, nonostante quello che ha visto e che fa. Cerca di giocare a palla con altri bambini ma viene respinto e allora salta da una chiazza di fango all’altra in un tentativo di gioco solitario e triste. Per un attimo ha come una folgorazione: la musica di un organo che esce da una chiesa lo costringe a fermarsi (finora lo abbiamo visto in costante movimento) ma, come se fosse incapace di credere ancora nella bellezza, riprende il suo cammino. In questa sequenza è condensato tutto il dolore e la pietà (nell’accezione più alta del termine) che Rossellini prova nei confronti del suo protagonista e che riesce a trasmettere allo spettatore. Sono sentimenti che vengono rafforzati da un contesto in cui le macerie non sono solo fatte di mattoni ma si trovano nell’intimo di un mondo adulto in cui tutti, dal perverso sedicente educatore alla donna che insinua in Edmund il sospetto che la sorella Eva si prostituisca, sono minati da quella malattia che l’ideologia nazista il conflitto hanno instillato in loro. La macchina da presa li osserva ma non si sottrae al giudizio che ha una radice fondamentalmente cristiana: “Chiunque scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e venga gettato in mare”.(Marco 9,42).
Giancarlo Zappoli – mymovies.it