Kyoko è un’artista ventunenne con manie di protagonismo. In un momento di sconforto si sfoga contro la sua assistente, più grande di lei, umiliandola sessualmente di fronte al loro staff. Improvvisamente qualcuno urla «taglia!» e ci si scopre sul set di un film. Una frattura della realtà che permette a Noriko di assumere il ruolo dominante e ribaltare il gioco di umiliazioni.
Giappone 2016 – 1h 18′
TORINO Il cinema può essere rivoluzionario. Forse lo è stato già in qualche occasione ma di sicuro questa carica è sotterrata sotto metri e metri di pellicola, e poi di pixel, che non fanno altro che ripetersi in un ammasso di codici replicanti con l’unica finalità di placare le morbose compulsioni di corpi affaticati dalla noia del lavoro, delle relazioni, del clima, del quotidiano protrarre la data della (propria) scadenza. Se il cinema dunque, può ancora fornire l’occasione per fendere la cortina di sabbia che, granello dopo granello, riempie le palpebre degli occhi di ingordi e assuefatti spettatori, per Sion Sono, non c’è occasione più prelibata che la celebrazione di un genere, a suo modo eversivo e distintivo nella recente storia del cinema del Sol Levante. Il pretesto arriva dalla casa di produzione Nikkatsu e dalla sua idea di recuperare i fasti del Roman poruno, a cui va dato il grande merito, a conti fatti, di aver lasciato una lungimirante libertà espressiva ad un autore dal genio inconfondibile e illimitato come Sono, il quale prende letteralmente le vacuità di un significante e le ribalta, per costruire un Anti-porno, sovvertire ogni canone di prassi narrativa, esplodere ogni cromia espositiva e mettere a nudo il corpo produttivo della finzione scenica. Quella scena chiusa e scomponibile in mille facce che è il corpo dell’immagine di tutto il film, e quella nudità perfetta e rilucente, ma allo stesso tempo, derelitta e umiliata, del corpo dell’attrice con cui si apre il film, distesa a letto con le mutandine calate, trasognante, o vittima di un sogno che forse, ripetutamente, si genera a partire da un altro sogno.
Tale e tanta è la poesia, rude e sublime, che la visione del regista riesce a condensare in settantotto minuti, stratificando i significati, orchestrando il tempo e la composizione musicale in un impeto di precisissimo e lucidissimo metodo visionario, apparentemente eccentrico ma mai così limpido nella disperata e accecante luminosità attrattiva per la natura degli opposti – vita e morte, desiderio e castrazione, realtà e finzione, attrazione repulsione, innocenza e colpa, diritto e dovere, distruzione e costruzione, libertà e schiavitù – che non c’è tempo per riflettere, il tempo ci porta già là da dove siamo partiti, o siamo sempre stati, ma in cui nulla è più uguale a prima, sporchi di una rugiada amara come il vissuto di ciò che siamo stati o avremmo voluto essere e non riusciremo mai a compiere.
Alessandro Tognolo – MCmagazine 42