Tromperie – Inganno

Arnaud Desplechin

Nella Londra del 1987, il famoso scrittore americano Philip “esiliato” nella City con la moglie, incontra regolarmente l’amante inglese nel suo studio, diventato il loro rifugio e nascondiglio. I due fanno l’amore, litigano e parlano di tutto: sesso, letteratura, morte, antisemitismo, fedeltà e infedeltà. Dal romanzo di Philip Roth, un adattamento sensuale ed elegante, di sopraffina intelligenza, sull’intreccio tra arte e vita e sui misteriosi recessi del desiderio.

 

Francia 2021 (105′)

Dare una forma alle parole. Trasformare in cinema i dialoghi. Questa è forse la sfida più grande con cui può misurarsi un regista. Ancor più ambiziosa, poi, se all’origine c’è un testo di Philip Roth, sicuramente uno dei grandissimi romanzieri della seconda metà del Novecento (e di fronte al quale era già naufragato il tentativo di riduzione di Pastorale americana). Arnauld Desplechin, che con i temi rothiani — il confine tra realtà e finzione, l’ambiguità del narratore, l’importanza della parola — aveva già flirtato in passato, sceglie con Tromperie (ma perché lasciare anche in italiano il titolo originale francese?) di misurarsi con un romanzo del 1990, Inganno, che da una parte offre il vantaggio di una trama romanzesca ridotta al minimo (il protagonista scrittore, Philip, racconta una serie di incontri femminili e non) ma proprio perché basato soprattutto sulla forza e il ruolo della parola non permette di aggirare il problema della sua forma cinematografica, di come i dialoghi diventano cinema.

E come non diventino nemmeno teatro andrebbe aggiunto, perché tutte le scene a due che compongono il libro non rievocano le occasioni di incontro ma registrano i dialoghi che Philip ha ogni volta con l’una o l’altra delle sue interlocutrici, che ha amato o che ama, ma di cui riporta le parole e non le azioni. O meglio, le cui azioni si possono intuire solo attraverso i dialoghi che spesso rievocano il passato o, nel caso della sua amante inglese, divagano o girano intorno alla loro relazione. Il film lo spiega benissimo fin dalla prima scena, quando una giovane donna inglese (Léa Seydoux) si rivolge direttamente allo spettatore mentre è seduta in una specie di camerino per il trucco e confessa di non voler dire nemmeno il suo nome pur raccontando la relazione che sta vivendo con uno scrittore americano, Philip (Denis Podalydès), momentaneamente trasferito a Londra. Una relazione di cui soprattutto sentiamo le confidenze, scoprendo l’i nfelice matrimonio di lei, madre di un bambino che non sa bene quanto ami, e la disinvolta infedeltà di lui, ma che vediamo solo una volta, e brevemente, fare davvero l’amore.

Per il resto ascoltiamo i loro discorsi, a metà tra le confessioni personali (per lei) e le riflessioni professionali (di lui, che a volte si appunta le frasi dell’amante). Questa storia, che apre e chiude il film, è inframezzata da altri capitoletti, dove Philip parla con donne che probabilmente ha amato — una profuga cecoslovacca (Madalina Constantin), un’amica in America che lotta con un cancro (Emmanuelle Devos), una sua ex studentessa (Rebecca Marder), la moglie (Anouk Grinberg) — ma anche con un amico regista (Miglen Mirtchev) e con suo padre (André Oumansky). A volte le persone ritornano, a volte l’incontro si esaurisce in una volta, a volte Philip racconta fatti della propria vita, a volte sono i suoi interlocutori a farlo. Si compone così una specie di diario intimo a più voci dove l’amate inglese ha il ruolo più importante, ma dove tutti contribuiscono a una specie di riflessione filosofica sul tema della fedeltà e dell’infedeltà (non solo nei confronti del partner, ma più in generale verso i propri desideri e le proprie ambizioni), con al centro l’importanza della parola e delle sue possibili sfumature e variazioni.

Un’ambizione che non avrebbe preso forma senza una direzione di attori assolutamente perfetta. Guidato da Léa Seydoux e Denis Podalydès, ma con una citazione speciale per Emmanuelle Devos, tutto il cast recita in un sorprendente stato di grazia, capace di usare i dialoghi per trasmettere emozioni (senza ricorrere a quello che dicono ma solo a come lo dicono: per questo la versione originale sottotitolata è obbligatoria!) che la fotografia panoramica di Yorik Le Saux riesce a racchiudere in un abbraccio altrettanto emotivo pur dovendo filmare dei volti e non i paesaggi per cui quel formato era stato creato. E restituendo allo spettatore la domanda che attraversa tutto il film: cosa c’è di vero o di inventato nei dodici capitoletti che formano questo «inganno»?

Paolo Mereghetti – Corriere della sera

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