Preso a servizio dal giovane, ricco e sfaccendato Tony Mounset, il cameriere Hugo Barrett intuisce la debole indole del suo nuovo padrone e non tarda a conquistarsi una posizione dominante, destabilizzando i ruoli sociali e trasformando l’amore e la sessualità in strumenti di potere. Primo capitolo della collaborazione tra Joseph Losey e Harold Pinter, dal romanzo di Robin Maugham.
The Servant
Gran Bretagna 1963 (155′)
L‘opera migliore della lunga carriera di Joseph Losey e uno dei più importanti film britannici degli anni ’60: una pellicola che sfugge alla classificazione di genere, in cui dramma e riflessione intellettuale trovano un miracoloso equilibrio. Un torbido mélo che trae ispirazione anche dall’horror, con il servo che infesta la casa e “vampirizza” il padrone come un’entità malvagia. Lo scontro di classe, spesso indagato dal regista, è qui asse portante che plasma il comportamento dei protagonisti, specchio di un mondo in cui mutano gli equilibri individuali e collettivi. Il tema del doppio, esaltato dal continuo gioco di specchi, porta a un ribaltamento di ruoli dove vittima e carnefice si confondono in un perverso intreccio di sopraffazioni. Losey è maestro nello scardinare le convenzioni (borghesi) basate sull’ordine precostituito attraverso una tensione (omo)erotica, dominazione/sottomissione e pulsioni animalesche. Regia barocca e avvolgente, capace di valorizzare la messinscena teatrale con virtuosismi ben mimetizzati (il piano-sequenza iniziale del colloquio tra Mountset e Barret, la scena della festa in cui emerge l’asfittica decadenza). Superba direzione degli attori ed esemplare uso dello spazio, con l’appartamento autentico co-protagonista della vicenda. Sceneggiatura di Harold Pinter sulla base di un romanzo di Robin Maugham. Straordinario bianconero di Douglas Slocombe.
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I film che fanno scandalo, come fece The Servant alla Mostra di Venezia del 1963, vanno guardati con sospetto, perché è difficile capire quanto le ragioni esterne (moralistiche o politiche) pesino sulle effettive qualità del testo. Nel caso, poi, dell’opera di Losey (lunga e diffusa: circa due ore di proiezione), agli equivoci provocati dallo scandalo si aggiunsero i suggerimenti del regista, che insistette sulla necessità di una lettura “brechtiana”: allo spettatore si chiedeva non una identificazione con i personaggi ma un rifiuto razionale dei loro comportamenti.
Anche nel cinema, gli anni sessanta si annunciano come una lunga marcia all’interno della società reificata del neocapitalismo. Tematiche sociologiche e tematiche psicologiche si alternano, e talvolta si sovrappongono, in una analisi che si va facendo sempre piú pressante. Losey è fra quelli che tentano di superare sia la contrapposizione sia la convergenza. Intorno ai personaggi (e, indirettamente, alla società) costruisce una gabbia stretta e soffocante, alla quale attribuisce il valore di sintomo: il malessere e la tragedia sono presenti fin dall’inizio, nascono dalle cose ma nello stesso tempo le dominano e le pervertono, inevitabilmente. In ciò, forse, consiste il “brechtismo” del regista.
Nel profondo, tuttavia, c’è qualcosa di diverso. “Essendo la morte la condizione della vita” scriveva Georges Bataille nel 1957, in un capitolo di La littérature et le mal dedicato a Emily Brontë “il Male, legato per la propria essenza alla morte, è anche, in maniera ambigua, un fondamento dell’essere. L’essere non è votato al Male ma deve, se può, non lasciarsi imprigionare nei limiti della ragione. Questi limiti deve anzitutto accettarli, riconoscendo la necessità del calcolo dell’interesse, ma deve poi sapere che una parte di sé – una parte irriducibile e sovrana – ad essi (e alla necessità che ha riconosciuto) sfugge. Tutto sembrerebbe, in The Servant, coerentemente razionale: il giovane e fiacco Tony si prende in casa un perfido maggiordomo perché gli serve, subisce la sua prepotenza perché è tanto debole (e corrotto) da sentirne la necessità, non riesce più a staccarsene – nemmeno quando ne ha scoperto l’infame natura – perché ormai il rapporto servo-padrone si è invertito, a tal punto che per lui degradarsi, come nell’orgia dei drogati che chiude il film, costituisce l’affermazione più alta della personalità, quella del padrone che può realizzarsi soltanto nella assoluta servitù. L’apologo sarebbe soltanto moralistico (con una sin troppo evidente sottolineatura sociologica) se il percorso della doppia abiezione di padrone e servo fosse così lineare. Non è così.
Tony, rampollo di illustre famiglia, assume Barrett per arredare la nuova casa a Londra e per occuparsi del servizio. E Barrett, accortosi della debolezza del padrone, vi si installa subito da dominatore. Intuisce che il suo dominio potrebbe essere insidiato da Susan, la (quasi) fidanzata piccolo borghese di Tony, e manovra per renderla inoffensiva. Introduce in casa una alleata, Vera, che presenta come sua sorella e fa assumere come cameriera. Non ha pudori, Barrett. Quando Tony lo sorprende a letto con Vera, dice tranquillamente la verità e nemmeno aspetta di essere cacciato. Se ne va. Tony crolla. Sente di non poter fare a meno, non solo di Barrett, ma anche di Vera. Li riprende in casa (una casa che a poco a poco si è riempita di mobili, nella scelta dei quali prima influisce il padrone e poi, con forza sempre più esclusiva, il servo: gli ambienti chiusi si trasformano nell’universo autosufficiente di una prigione). Barrett, ora, non ha più freni. Ordina a Vera di sedurre Tony, che del resto già prova un’attrazione ambigua nei suoi confronti (e nei confronti dello stesso Barrett). In una sequenza di insinuante complessità, la sgualdrinella esegue l’ordine, scegliendo la cucina come luogo della seduzione. Barrett coinvolge perfino Susan, ancora animata dai suoi buoni propositi e dai suoi concreti interessi. Nella casa può avvenire di tutto, ormai è Tony che lo vuole. Barrett è scatenato, porta in casa chiunque capiti. E tutti sono con lui, Susan compresa. Il film sale gradualmente di tono, con una progressione fatta di minimi scatti e di esplosioni improvvise. E si conclude con un’orgia generale, che si prolunga per tutta una notte. L’unica a ribellarsi è Susan, finalmente, che schiaffeggia Barrett e fugge. Gli altri restano prigionieri di se stessi, del male (nel senso batailliano). L’equazione male = morte (appaiata all’altra: erotismo = morte) è l’autentico nucleo del film.
Fernaldo Di Giammatteo – 100 film da salvare