Patrizia Reggiani, una ragazza di umili origini, entra a far parte della famiglia Gucci e la sua sfrenata ambizione inizierà ad incrinare i rapporti familiari, innescando una spirale incontrollata di tradimenti, decadenza, vendetta…
USA 2021 (158′)
Ridley Scott ha questa strana capacità di far convivere la produzione tripla A e lo scivolone da B Movie deteriore, tendente al trash. Può essere una caratterizzazione macchiettistica, uno stereotipo irricevibile o una improvvisa impennata splatter, il marchio di fabbrica scottiano salta (quasi) sempre fuori”. Iniziavo così la mia recensione di Tutti i soldi del mondo, dalla quale ripartirei. O meglio, ripartirei dal quel quasi tra parentesi perché stavolta, Scott fa qualcosa di un po’ diverso trovando, per vie traverse, la quadra. Come se in House of Gucci non ci fosse più il marchio di fabbrica che salta fuori ma una compenetrazione tra le righe e il sopra le righe, tra il grande cinema e quello più sguaiato, tra il lusso e il kitsch, tra il sottile e il trash. Intanto, si può preliminarmente constatare che “il mondo della moda”, raccontato nel film, è fatto anche di questo bi-tri-polarismo, sospeso com’è in una terra di mezzo in cui la raffinatezza e il cattivo gusto sono due (s)facce(ttature) spesso sovrapponibili della stessa medaglia, e che quindi questo tipo di approccio finisce per essere perfetto per la materia trattata. Scott, infatti, racconta questa storia vera un po’ come gli stilisti raccontano (o credono di raccontare. o fingono di raccontare) la realtà, ossia trasfigurandola, dandone un’interpretazione tutta estetica e pop, in cui un pantalone largo è simbolo di Libertà e una trasparenza rappresenta un rinnovato bisogno di sincerità, con se stessi e con gli altri. E l’unico modo per raccontare la realtà, al cinema, è proprio evitar(n)e il realismo per coglierla nella sua essenza meno plausibile, come aveva capito benissimo il fratello Tony di Domino.
Ecco allora che la recitazione stupefacente di Jared Leto trova una sua collocazione – cercare il lato grottesco/patetico del personaggio -, così come quella di Al Pacino, lasciato libero di gigioneggiare come se fosse ancora sul set di The Irishman per far emergere l’aspetto (tutto cinematografico) più famiglia-re, in senso quasi padrinesco, della vicenda. Tutto questo, si badi, in un equilibrio che ha quasi del miracoloso, per come Ridely Scott riesce a tenere tutto sotto controllo, a non sbracare, a soffocare un po’ dopo il nascere le derive potenzialmente più trash, come quando il film rischia di diventare Vacanze di Natale – tutta la parte sulla neve, col dolcevita di Driver che fa molto Christian De Sica – senza diventarlo veramente mai (anche perché la fotografia è pur sempre affidata al fido Dariusz Wolski, non a Duccio Patanè). Tutto viene ricondotto nei nobili territori del racconto cinematografico, perché poi, conviene ricordarlo, è quello e solo quello a cui Ridely Scott sembra sempre – e da sempre – tenere: il Cinema. Verrebbe quasi da (ar)dire – ma sarebbe un discorso lungo – che nel suo cinema non sembra mai interessato a cosa racconta quanto al come lo vuole/deve raccontare, a quale sia, meglio, il modo cinematografico giusto (e quali le immagini giuste) per raccontarlo.
A conti fatti, basta solo vedere come scivolano via i 157 minuti di film, anche in House Of Gucci questo modus narrandi alla fine lo ha trovato, tenendosi lontano – a dispetto delle apparenze – dagli eccessi che pure il film accarezza ma facendo invece emergere i risvolti più banali, superficiali, fatti anche e soprattutto di mediocrità e pochezza. Scorriamo la galleria di personaggi, vediamo come recitano / vengono fatti recitare alcuni di loro, Adam Driver su tutti: distaccato, asettico, senza qualità. Non si racconta, cioè, un crepuscolo degli idoli, né il crollo di una dinastia, ma l’implosione di sostanziali arricchiti che finiscono per fallire e soccombere sotto il peso delle proprie ambizioni, alle quali non hanno la capacità di tenere testa. Unica parziale eccezione: Lady Gaga / Patrizia Reggiani (non a caso una non-Gucci che diventa Gucci solo in un secondo momento), inizialmente umana troppo umana, forse l’unica “persona vera”, come si scrive sui social, viva, pulsante, che finisce però, anche lei, per guccizzarsi (anche esteticamente e attorialmente, per così dire) e diventare vittima di se stessa fino a trasformarsi nella sprovveduta mandante di un omicidio.
Gianluca Pelleschi – spietati.it