Sull’isola di Bergman

Mia Hansen-Løve

Una coppia di autori cinematografici è in cerca di ispirazione per il proprio lavoro. Fiduciosi di trovarla in un posto speciale, la coppia si ritira per l’estate a Fårö, l’isola tanto cara al grande regista del cinema svedese Ingmar Bergman. Quando dal soggetto che lei sta scrivendo i personaggi cominciano a prendere vita, il film diventa per lo spettatore un momento di meta-cinema sofferto e intrigante.


Bergman Island
Francia 2021 (112′)

  Vera protagonista del film è l’isola di Faro, dove Bergman ha girato Come in uno specchio, Persona, Vergogna, Passione e in parte “Scene da un matrimonio” , e dove ha vissuto per trentacinque anni. A tutta prima l’approdo a Faro di Tim Roth, regista, e della moglie sceneggiatrice Vicky Krieps ( deliziosamente rivelata da Il filo nascosto ), ti fa paventare un giro turistico per feticisti cinefili. C’è il lettone di Scene da un matrimonio, c’è il piano di Ingrid Bergman in Sinfonia d’autunno, c’è la saletta di proiezione del maestro svedese dove la prima fila con il suo posto è ancora off limits, e via spigolando, con un pullmino “Bergman Safari”che commercializza il pellegrinaggio. Poi piano piano ti immergi in un esercizio di meta-cinema sottile e insinuante, perché dal soggetto che lei sta scrivendo i personaggi prendono vita, diventano storia vissuta e sofferta, in quei luoghi, da Mia Wasikowska e Anders Daniels Lie, attore prediletto da Joachim Trier. Da ex amanti, i due si ritrovano casualmente per un matrimonio, c’è un ritorno di fiamma, ma non con gli stessi sentimenti. E la sceneggiatrice sarà risucchiata nel parto della sua fantasia, tanto da condividere, su un set a venire immaginario o reale, i sussulti d’amore di Mia Wasikowska. Ha un fascino inquietante, l’operazione, che ti irretisce e ti passa sottopelle, anche perché c’è sensualità vera su quella linea d’ombra in cui immaginario e realtà vanno in cortocircuito. Ci sono istanti precisi, lampi, illusioni e risvegli che prima o poi ognuno di noi ha vissuto.
È un film colto senza supponenza. Imperdibile il chiacchiericcio tra esperti che mescola il sacro dell’arte al profano dei pettegolezzi: i nove figli avuti da Bergman da cinque donne diverse e la ‘crudeltà’ dei suoi film. Ma è un’eleganza che parla direttamente alla pancia: good vibrations, o forse questione di feeling. Un film dentro un film dentro un’isola sacra del cinema: è una mise en abyme in cui perdersi fa bene al cuore.
Per la regista, è anche e soprattutto una storia di emancipazione: “Quella dai nostri maestri, ma anche quella della protagonista dal suo uomo. Chris si considera fragile e dipendente, ma finalmente scopre la propria forza creatrice: è il risveglio della fiducia in se stessi, di una vocazione che va perseguita”.

Teresa Marchesi – huffingtonpost.it

 Chris e Tony (Tim Roth e Vicky Krieps) sono una coppia di registi. Li conosciamo a bordo di un piccolo aereo – su cui lei è disperatamente nervosa –, poi su una macchina a noleggio, con un navigatore che pronuncia a fatica la complessa toponomastica svedese, infine su un traghetto, a bordo del quale ammirano la vista della loro destinazione. La meta è Fårö, l’isola del Mar Baltico dove Ingmar Bergman ha girato molti dei suoi film e dove ha vissuto l’ultima, lunga parte della sua vita. I due sono in cerca di ispirazione, abitano le stanze di una casa che respira dei fantasmi bergmaniani, dormono nel letto in cui furono girate alcune sequenze di Scene da un matrimonio, il “film che ha fatto divorziare milioni di persone”.
Lui scrive forsennatamente nello studio, lei, vittima di uno stallo creativo, si rifugia nel mulino di fronte la casa. Come in un duello, possono osservarsi dalle finestre, si studiano, assaporano un’intima distanza. Hanno lasciato una figlioletta a casa, si immergono in quell’atmosfera così peculiare, in una natura brutale che il cinema di Bergman ha reso immortale e quindi simbolica. Tony è serenamente preso dal suo lavoro, che consiste anche in incontri pubblici e presentazioni di suoi film precedenti: ha successo e lo vive con apparente distacco e modestia, lontano dal divismo di certi autori. Chris, più giovane e insicura, cerca una soluzione per la sua storia, incastrata in un’incertezza dolcemente inquieta. Il loro rapporto, apparentemente placido, suggerisce impercettibili increspature.

In Bergman Island, Mia Hansen-Løve, costruisce il delicato ritratto di una relazione tra due modi creativi, tra due generazioni di registi, tra un maschile e un femminile che, pur rifuggendo il conflitto, scoprono la profondità delle loro differenze. E mentre Tony si fa risucchiare dal parco a tema cinematografico che è ormai Fårö (con i suoi “Bergman Safari” e le visite guidate), Chris si lascia guidare da un’improbabile Virgilio – uno studente di cinema disponibile e goffo – che la guida nei segreti dell’isola con toni più intimi e confidenziali. Hansen-Løve delinea un ritratto affettuoso della coppia, ne sfiora le incrinature, ostenta il legame che li unisce, evoca probabilmente l’autobiografia e il rapporto d’amore vissuto con Olivier Assayas. È quindi ovvio che il cuore pulsante del film, il centro gravitazionale della storia sia Chris, il suo bisogno di trovare una storia e una strada, l’evolversi dei suoi dubbi e dei suoi timori. E quando Chris racconta a Tony il film che sta scrivendo e il punto morto in cui si sente arrivata, le immagini seguono le sue parole mettendo in scena quella storia e mostrandoci letteralmente ciò che Chris ha in mente.
La luce dell’isola, che immerge in colori vividi la narrazione principale, si fa notturna, volge in malinconia per rappresentare una storia d’amore infelice che trascende il tempo ma viene sconfitta. Il gioco di specchi tra Chris e i suoi personaggi si fa chiaro, rimbalza suggestioni, crea elettricità. Non è però il solito meccanismo del film nel film, quanto la concretizzazione di immagini, una finestra aperta sul mondo interiore della protagonista. In questa distinzione sempre più sfocata tra finzione e realtà, tra riflessioni sul tempo (e sul cinema, unica arma che può sconfiggere il tempo) e digressioni da turisti colti, si affaccia proprio l’onnipresente spirito bergmaniano. Bergman è infatti al centro di luoghi e discussioni – sulla genialità dell’artista e la durezza egocentrica dell’uomo, sulla capacità taumaturgica del cinema e sullo scacco morale che comporta – e aleggia nel film come uno spettro, si insinua nei meccanismi psicologici dei protagonisti, ne modella – a livello inconscio – le scelte, si respira nell’aria come un gas inebriante.

Perché Bergman Island è solo apparentemente un film di giochi e rimandi cinefili, di sfoggio culturale sull’importanza dell’artista e della sua eredità. Rappresenta invece l’escamotage narrativo – un nume tutelare, un deus ex machina – in grado di rivelare un altro capitolo del soffuso universo relazionale che è alla base del cinema di Hansen-Løve, regista capace di mettere in scena i sentimenti con una limpida naturalezza, di restituire un mondo emotivo complesso e sfaccettato, di scolpire figure femminili che, nella loro fragilità, possono perdere la strada senza mai smarrire la bussola che le guida nel mondo.

Federico Pedroni – cineforum.it

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