Qui rido io

Mario Martone

Napoli, primissimi anni del ‘900. Eduardo Scarpetta (Toni Servillo) è una delle personalità artistiche più in vista all’interno del panorama teatrale partenopeo. A capo di una numerosa famiglia, il celebre attore e capocomico, legato da una lunga tradizione alla maschera di Felice Sciosciammocca, vede la sua carriera subire un brusco scossone quando viene denunciato per plagio da Gabriele D’Annunzio.

Italia 2021 (133′)

 VENEZIA – Il filo rosso che lega Martone alla sua città di origine lo ha riportato a Napoli per girare questo secondo capitolo sul teatro partenopeo, dopo Il sindaco del Rione Sanità, incentrato sulla figura del grande attore, capocomico Eduardo Scarpetta, sul suo teatro, la sua famiglia e sulla Napoli del tempo, focalizzando il racconto intorno all’anno del processo per plagio intentatogli da D’Annunzio per la sua parodia de La figlia di Iorio.


Qui rido io
, per le parole dell’autore, è “l’immaginario romanzo di Scarpetta e della sua tribù”. Cinico, amorale, di grande vitalità e talento, di umili origini, ma divenuto celebre grazie alle sue commedie, in particolare al personaggio di Felice Sciosciammocca, Scarpetta vive per il teatro e ha attorno a sé una grande famiglia composta da moglie, amanti, figli legittimi e illegittimi, tra cui Titina, Eduardo e Peppino De Filippo. “Un patriarca amorale spinto dalla fame di riscatto e di rivalsa, una figura e un’energia primordiali, quasi mitologica”, lo definisce Martone.
Su di lui l’autore dirige un’irresistibile commedia popolare, sorretta da una sceneggiatura capace di condensare attorno al nucleo principale del racconto un’infinità di temi che vengono sviluppati con una regia impeccabile ed elegante, che sa tenersi sempre lontana dal pericolo di cadere nei luoghi comuni e nel macchiettistico. Il film infatti riguarda la storia di un uomo e di un artista attraverso le sue luci e le sue ombre, le sue debolezze e i suoi punti di forza, ma è anche una riflessione sullo stato dell’arte, sulla sua libertà di essere e di manifestarsi.

Martone, abituato a muoversi egli stesso dal teatro al cinema, costruisce il suo affresco su molteplici piani, celebrando in contemporanea l’uomo e l’artista, mentre realtà e farsa, verità e rappresentazione sembrano continuamente fondersi e confondersi. La vita stessa di Scarpetta è tutt’uno col suo teatro, e Servillo, qui in una delle sue migliori interpretazioni, passa con disinvoltura da uno Scarpetta che recita a uno nella vita e quindi nel cinema, due tecniche diversissime, che lui riesce a rendere un flusso continuo e indistinguibile. Così come la regia di Martone passa con grande fluidità, dal palcoscenico alla cucina, dal teatro a casa, con i tendoni del teatro che si confondono con le tende che si affacciano dal suo sontuoso appartamento su Napoli e sul mare.
Arte e vita che si intrecciano quando il grande istrione costringe con sadica caparbietà i figli De Filippo, mai riconosciuti, a intonare nel modo giusto, nei panni di Peppinello di Miseria e Nobiltà, il tormentone: “Vincenzo m’è padre a me”. Lo zio riconosciuto e svelato in realtà come padre. O quando, in una delle più belle e significative sequenze del film, il patriarca, a tavola con tutta la grande famiglia riunita, “distribuisce le parti”, in questo caso del supplì, a seconda del ruolo occupato dai vari convitati.


Una famiglia, che Martone tratteggia con particolare efficacia. Innanzitutto le donne: la moglie Rosa (una bravissima Maria Nazionale), la sorellastra della moglie e la nipote Luisa De Filippo (Cristiana Dell’Anna), “donne atipiche, – le definisce – con qualcosa di virile che scompigliava il conformismo, si rispettavano ed erano guardinghe, rivali, conoscevano il dolore e l’orgoglio”. E poi i figli: Peppino, che, abbandonato in campagna con la balia nei suoi primi cinque anni, avrebbe sempre odiato il padre, nonostante ne sia diventato il vero erede sul piano recitativo e Eduardo, che per tutta la vita si rifiutò di chiamarlo padre e che avrebbe poi posto al centro del suo teatro il tema della paterntà negata, al quale Martone sembra aver affidato il ruolo di coprotagonista, infatti il film si apre con lui bambino che guarda assorto la scena dalle quinte e si chiude con le immagini di lui adulto in camerino.
E sullo sfondo la Napoli della Belle Epoque, affascinante e opprimente così come lo è il personaggio di Scarpetta, con i suoi colori e le sue canzoni, le cui parole sembrano essere parte integrante della sceneggiatura: quando Scarpetta passeggia solo nei vicoli di notte si leva la voce di Murolo che canta “Voce’e notte” .


La scelta di focalizzare la storia intorno agli anni del processo per plagio intentatogli da D’Annunzio (la prima storica causa sul diritto d’autore in Italia) ha permesso a Martone di rappresentare il personaggio in un momento in cui tutte le sue certezze sembrano vacillare, ma nello stesso tempo di ampliare la prospettiva del racconto in una riflessione più ampia, che si può estendere a tutti i campi dell’arte. Nella controversia tra il teatro popolare e farsesco di Scarpetta e quello decadentistico di D’Annunzio da un lato e quello dei veristi, come Di Giacomo, Bovio, Bracco dall’altro, si leva la voce di Benedetto Croce (Lino Musella), che, accettando di difendere Scarpetta, sposta i termini della questione dal concetto di plagio ad un piano più ampio: un’opera comica si può considerare arte al pari di un dramma? La discriminante è il contenuto o la sua valenza artistica? Il vero problema sta nel decidere se un’opera è bella o brutta, conclude il filosofo.
A questo punto vien da dire che se la giuria di Venezia si fosse attenuta a questo principio sacrosanto e non si fosse forse lasciata trascinare dall’onda dell’insopportabile “metoo-istico politicamente corretto” forse un premio avrebbe potuto darlo ad un film che meritava senz’altro un Leone..

Cristina Menegolli – MCmagazine 69

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