UDINE – Tra i vari meriti del FarEastFilmFESTIVAL, ingiustamente e inspiegabilmente trascurato dalla critica nazionale, va ascritto anche un nuovo campo di attività, a cui i coraggiosi organizzatori si sono indirizzati: quello del restauro. Per festeggiare la 19° edizione è stato infatti presentato uno dei titoli clou della prima edizione, il capolavoro di Fruit Chan Made in Hong Kong, restaurato in 4K ad opera del laboratorio bolognese L’immagine ritrovata, nella sede di Hong Kong. Il restauro è stato eseguito dal negativo originale con la supervisione dello stesso regista Chan e del direttore della fotografia O Sing Pui. Lo scopo era anche quello di celebrare il ventesimo anniversario della sua prima proiezione pubblica, dopo il trasferimento della sovranità di Hong Kong alla Cina nel 1997 e di avviare una riflessione sul cinema di Hong Kong dopo l’annessione, con la bellissima retrospettiva Creative Visions. Hong Kong cinema 1997-2017, nell’ambito della quale il pubblico ha potuto vedere o rivedere capolavori quali The mission di Johnnie To, The grandmaster di Wong Kar Wai, Infernal Affairs di Andrew Lau, Alan Mak, Accident di Soi Cheang…
Sui problemi sorti in seguito al passaggio alla Cina e alla perdita dell’indipendenza (restrizione della libertà creativa, conservazione della lingua e della cultura) si era discusso in questa sede anche nel corso delle passate edizioni, in particolare su questi temi si era intrattenuto Johnnie To nel presentare il suo laboratorio di cinema indipendente Fresh Wave, che ogni anno è ad Udine con una rassegna di cortometraggi di giovani registi esordienti. Se verso la fine degli anni 90 i film di arti marziali cominciavano ad interessare meno, anche gli action movie avevano dato segno di una certa ripetitività e forse fu proprio il film indipendente Made in Hong Kong, che ne smontava i meccanismi, a dare una svolta definitiva a quel genere. I temi del cambiamento traumatico e della ricerca dell’identità sarebbero stati presenti in molti dei capolavori prodotti a Hong Kong negli anni successivi.
Il film venne girato da Chan nel1997 con un budget molto ridotto, utilizzando scarti di pellicole del film di kung fu, in cui faceva da aiuto regista e con attori non professionisti, decisione quest’ultima dovuta non tanto a motivi economici quanto ad una precisa scelta estetica e venne proiettato tre mesi dopo che la città-stato, dopo cento anni di protettorato britannico, era tornata sotto la dominazione cinese. Un momento molto drammatico per i suoi abitanti, che si chiedevano cosa ne sarebbe stato di Hong Kong.
Made in Hong Kong presuppone sin dal titolo una rivendicazione di appartenenza: geografica, politica, sociale e culturale. Il film si apre con la voce fuori campo di Mi Aout (Sam Lee), il giovane protagonista, che spiega agli spettatori quale sia il suo destino: ha lasciato la scuola e si è arruolato nella piccola criminalità cittadina: “non ero bravo negli studi, ma il sistema scolastico non è certo migliore di me”, una frase che suona come una sentenza per una vita, che non ha prospettive di salvezza. Non c’è scampo per le giovani generazioni proletarie e sottoproletarie di Hong Kong, per Mi Aout che vive riscuotendo piccoli crediti per la malavita organizzata, né per Sylvester, l’amico che lui protegge perché un po’ ritardato, né per Ping, la ragazza di cui si innamora, che non ha i soldi per un trapianto che potrebbe salvarle la vita. Sono tutti e tre spacciati. La cinepresa di Chang segue i loro vagabondaggi per la città alla ricerca dei destinatari di due lettere insanguinate, trovate accanto al corpo di una loro coetanea che si è suicidata, lanciandosi da un grattacielo.
La maestria di Chan emerge dal coniugare l’improvvisazione e il crudo realismo delle riprese con una regia sofisticata ed elegante, nella quale l’uso di strumenti quali il ralenti, il rewind, le inquadrature sghembe non sono mai artifici puramente estetici, ma rispondono alle esigenze della narrazione, tutta condotta in prima persona come flusso memoriale del protagonista, che rivede la sua vita dopo essere morto.
Altro aspetto straordinario del film è la capacità di Chan di trasmettere attraverso questa storia l’atmosfera soffocante che si era impadronita della città, nel momento in cui stava per perdere la sua identità, atmosfera che preannuncia un’inevitabile catastrofe, la fine di un mondo che non potrà più essere come prima. Se già lo sviluppo delle vicende dei personaggi allude a questo, sono presenti nel film due immagini emblema indimenticabili: la sequenza, ricorrente nella memoria di Mi Aout, in un affascinante flashback bluastro e spettrale del suicidio della ragazza e l’immagine dell’immenso cimitero arroccato su una collina che domina la città, in cui si ritrovano spesso i protagonisti e in cui la triste parabola di Mi Aout troverà il suo epilogo.
Ha affermato infatti lo stesso Chan nel corso di un’intervista: “ci sono alcune sequenze chiave girate in un immenso cimitero, nel quale sono sepolti realmente tutti i morti di Hong Kong, è una specie di libro di storia architettonico e umano sulla colonia, e in questo senso la morte si può leggere ovviamente come un desiderio metaforico dei protagonisti di reagire alla morte “individuale”, alla quale tutti e quattro i protagonisti (prima tra tutte la ragazza che si vede solo in flashback) sono destinati, ma anche come la volontà di reagire alla morte sociale e politica di Hong Kong, al ritorno nel soffocante abbraccio cinese.”
Cristina Menegolli – MCmagazine 42