La terra dei figli

Claudio Cupellini

In un mondo post-apocalittico, un padre (Paolo Pierobon) e un figlio (Leon de la Vallée) cercano di sopravvivere a un’esistenza complicatissima. Dopo una catastrofe non meglio specificata, i pochi superstiti devono arrangiarsi come possono in una società dominata dalla solitudine e dalla violenza. Quando il padre muore, al figlio non resta altro che un quaderno, dove sono raccolti tutti i pensieri del genitore…


Italia 2021 (120′)

Lo scenario di una recente apocalisse, di cui non sapremo quasi nulla se non di un veleno che ha probabilmente estinto l’umanità, si colloca tra le foci del Po, in quel tratto finale del fiume che sente l’odore del mare e sembra un territorio misterioso, affascinante, ora disabitato, decisamente ostile, dove la morte è sempre a un passo. Un ragazzo, che chiameremo Figlio, si muove randagio, estromesso da qualsiasi ormeggio della memoria, incapace di leggere e scrivere: all’inizio perde anche il Padre, del quale conserva un diario ovviamente a lui incomprensibile, poi vaga continuamente facendo incontri sempre più pericolosi, finché divide una fuga verso un futuro ignoto con una giovane donna, dopo averla liberata dalle catene con le quali era tenuta ferocemente prigioniera.

Traendolo dal graphic novel di Gipi, con La terra dei figli il padovano Claudio Cupellini (autore anche della sceneggiatura assieme a Guido Iuculano e Filippo Gravino) ci porta in un tempo e in un mondo sospeso, così raro e prezioso per il cinema italiano, spesso pronto anche nelle situazioni estreme a trovare agganci facili alla speranza. Affronta il romanzo di formazione di un giovane, quindi di una nuova umanità sperduta, disattivata di ricordi ed esperienza, con uno sguardo compassionevole, pur seguendo il vagabondaggio da una rispettosa distanza emotiva, in un elegiaco confronto con la natura, bella e di aspra ruggine, tormentata dal passaggio umano (il cimitero di auto, lo scheletro delle fabbriche abbandonate, gli impiccati sulle rive), dove una piccola barca cerca il passaggio agognato. Ci si immerge in una dimensione spettrale, scandita dalla rabbia e dalla paura dei rari sopravvissuti, come se non ci fosse un domani, che fa sembrare il Po uno di quei fiumi infiniti, nelle paludi silenziose di territori vasti e lontani.

È un racconto che anela alla parola, alla scrittura, non solo per quel diario che passa di mano in mano, unico custode di un mondo in rovina. Per questo è più un film sul sentimento, che su una realtà distopica, che sta invadendo il nostro immaginario: basterebbe ascoltare le poche note di Francesco Motta, che sottolineano i vuoti, le assenze, il dolore, senza sopraffarli. Cupellini resta sempre un passo indietro dal clamore e dal gorgheggio di un cinema altrimenti spettacolare: qui a mettere i brividi bastano la leggerezza di un carrello, di un dolly e lo sciabordio di una barca che accoglie due naufraghi che si abbracciano. Il rapper Leon de la Valée scuote il suo corpo esile ed energico per un Figlio tra la perdita di sé e il desiderio di ritrovarsi; Valeria Golino è una Strega cieca spigolosa e caritatevole; Paolo Pierobon un padre disperatamente severo; Valerio Mastandrea un Boia che comprende l’ora di abbandonare la crudeltà; Maria Roveran offre le stimmate di una nudità palingenetica.

Adriano De Grandis – Il Gazzettino

 

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