Al termine della Shiva – la settimana di lutto – per il figlio scomparso, Eyal viene spinto dalla moglie Vicky a riprendere la loro normale routine. L’uomo però, inizia a frequentare un giovane vicino di casa, amico del figlio defunto, e decide di andare alla scoperta delle cose che davvero valgono la pena di vivere… Polonsky affronta il tema tragico del suo film con la levità dell’umorismo che scaturisce dal continuo movimento tra dramma e commedia. Uno straordinario «road movie» in cui si viaggia materialmente poco, ma tanto attraverso l’umanità e la vita di chi resta.
Shavua ve Yom
Israele 2016 – 1h 38’
Eyal Spivak e sua moglie Vicky hanno trascorso la rituale settimana di lutto per la morte del giovane figlio prevista dalla religione ebraica ed è ormai giunto il momento di ritornare alla quotidianità. Eyal si reca alla clinica per malati terminali per recuperare una coperta che apparteneva al figlio e trova invece una confezione di marjuana per uso medico. Decide di portarla via e chiede al figlio del vicino di aiutarlo a preparare un joint.
Inizia così l’opera prima di Asaph Polonsky che arriva sui nostri schermi dopo essere stata pluripremiata non solo al Jerusalem Film Festival ma anche alla Semaine de la Critique a Cannes e altrove. Si tratta di riconoscimenti meritati perché il poco più che trentenne regista, nato a Washington ma cresciuto in Israele, ha saputo sfruttare il plot di partenza non per evadere nei percorsi della commedia demenziale, ma per affrontare un discorso serio su come ognuno di noi si rapporta con la perdita di una persona cara.
Vicky si è irrigidita nel dolore e si impone, finito il periodo prescritto, di tornare a vivere come prima pur sapendo che è impossibile. Torna nella scuola dove insegna pretendendo di allontanare senza preavviso il supplente, va dal dentista e si tiene alla larga dai dirimpettai nei confronti dei quali prova un astio irrisolto. Eyal si muove nella maniera opposta cercando proprio la collaborazione del loro figlio e formando con lui un duo che cerca in qualche misura di lasciarsi alle spalle il dolore per andare oltre guardando alla vita così come si guarda a dei gattini che chiedono un sorriso. Ma i sorrisi faticano a manifestarsi, a meno che si debbano alimentare sul volto di una bambina la cui madre è ricoverata nella stessa clinica in cui si trovava il figlio di Eyal.
Si può allora assistere a una delle più tenere scene di mimo che il cinema degli ultimi decenni abbia offerto avendo così l’opportunità di capire come l’arte possa ancora consentirci, in questo oceano di flussi mediatici, di fare silenzio e riflettere. Così come il finale in cui Polonsky sembra avvicinarsi al cinema di Roy Andersson (non solo per il riferimento aviario al suo film vincitore a Venezia) per poi ritrarsene a favore di una soluzione personale.
Giancarlo Zappoli – mymovies.it