Félix, un ragazzo di 17 anni, riceve un invito su WhatsApp: vuoi giocare alla Blue Whale? Il gioco con le 50 sfide? Quello in cui alla fine devi ucciderti? Félix accetta. È così che incontra Elisa. I due iniziano a completare le sfide insieme. 50 è la storia d’amore di due adolescenti con tendenze suicide che decidono di giocare insieme finché morte non li separi. Mancano solo 6 giorni.
Messico 2020 (122′)
VENEZIA – Mas o menos. Basta questa risposta, ripetuta più volte lungo il corso del film dai due protagonisti, per cristallizzare uno stato d’animo e descrivere una mancanza, una totale mancanza di appigli e coordinate verso cui tendere per produrre un pensiero che vada oltre l’indifferenza per qualsivoglia alternative possa presentarsi; la massima espressione di un sentimento alla base della genesi di un gioco come la Blue whale challenge.
Partendo da un fatto di cronaca accaduto a Città del Messico nel 2018, il regista Jorge Cuchì, per la sua prima produzione per il grande schermo, immagina i giorni antecedenti all’esito della vicenda. Un finale già scritto dunque, il quale, data la natura del tema – ad oggi forse il più grande tabù ancora narrabile -, rimane fino alla fine sospeso in una condizione di impossibilità, abituati da sempre ai canoni e alla morale di un cinema hollywoodiano accomodante e consolatorio che prevede la redenzione, la risoluzione, il trionfo dell’amore per ristabilire le sorti di due esseri che hanno perduto la retta via e la speranza verso un futuro migliore.
L’immagine della balena che trova la morte sulla spiaggia fornisce già da sola la grandezza e l’inesorabilità di un fenomeno ormai diffuso ovunque, segno di un tempo che non ammette più mezze misure, non bada a vieti costumi e convenzioni sociali e, come sottolinea il regista: “Quando qualcuno decide di suicidarsi, non è perché vuole mettere fine alla propria vita, ma perché vuole mettere fine alla propria tristezza. 50 (o dos ballenas se encuentran en la playa) racconta la storia di Felix e Elisa, due ragazzi che sono nati nella mia mente con un desiderio soverchiante di terminare le loro brevi e tristi vite: due giovani amanti che, circondati da buoni assenti e cattivi presenti, prendono parte ad un gioco suicida che li spinge a vivere e amare con intensità lungo ciò che rimane delle loro esistenze rovinate (da altri, come sempre), attraverso il completamento di 50 sfide in 50 giorni. Qualcuno mi ha detto che il mio film è un specie di avventura nichilista. Posso essere d’accordo”.
Ma quello che è un nichilismo dei sentimenti non lo è anche dellla forma, che nella rappresentazione di Cuchì tende invece a distanziarsi a favore di un romanticismo tragico e liberatorio, e uno sguardo accogliente e mai giudicante né apprensivo o tantomeno istruttivo. Manca il conforto di una spiegazione, la rabbia da indirizzare verso un colpevole, l’illusione di una facile accusa; gli occhi devono vedere senza occlusioni la danza macabra degli atti di autolesionismo, le incisioni, i tagli, le auto incendiate, lo scorrere sinuoso del sangue, la percezione di cadere nel vuoto, del male che si può infliggere agli altri e a sé stessi; e l’indifferenza del mondo che, assieme alla solitudine, sono i veri protagonisti occulti del film, e dei nostri tempi. Sfide come la Blue whale sono i prodotti naturali dei presente e non estasi folli di una mente malata. Ancora una volta, la malattia sarebbe la più facile via di fuga che Cuchì evita abilmente. “Felix ed Elisa non pensano di porre fine alle loro vite a causa del Gioco. Vogliono porre fine alle loro vite a causa della loro tristezza, perché altri hanno rovinato le loro vite mentre altri ancora non stavano guardando. Il Gioco diventa molto conveniente per noi che abbiamo bisogno di trovare qualcuno o qualcosa da incolpare oltre a noi stessi”.
Non c’è quindi la volontà di mostrare un disagio fin troppo implicito nell’essere in vita e far parte di questo mondo, ma anzi una tenerezza per la consapevolezza della scelta di non voler accettare una sofferenza senza fine. Pur con la parziale riflessione che l’adolescenza porta con sé, i due ragazzi hanno capito prima, e più, degli individui che li hanno messi al mondo, che l’unico senso della loro vita è terminare il prima possibile l’agonia di farne parte. “Scrivere la storia di 50 mi ha dato la possibilità di riflettere su molti temi: il rapporto tra adolescenti e tecnologia; il rapporto tra adolescenti e adulti; vita e morte; il potere dell’amore; ma soprattutto ho pensato molto al potere della tristezza”. E sarebbe anche ora di provare a cambiare un po’ l’immagine della tristezza come una forma infima di debolezza. Ci vuole una forza non indifferente per districarsi dentro l’inferno, accettare le regole, sopportare di essere pedine di scelte altrui.
Un film duro ma allo stesso tempo pieno di una bellezza non convenzionale, intima e fugace come l’accenno di un sorriso e il calore di un avvicinamento, di una condivisione radicale prima della fine. Lo sguardo del regista messicano non si lascia impietosire dall’impatto emotivo del suo contenuto e si concentra attorno ai corpi errabondi eppure strangolati della giovane coppia, elementi di una scissione che si completa nella loro unione (il 50 del titolo in qualche modo sembra evocare una metà di un tutto). Dividere lo schermo a metà, escludere tutti i volti dei genitori, e in generale degli adulti, mostrandoli sempre di spalle – contenitori inutilmente parlanti e più che mai privi di qualunque funzione – assieme a un’estetica da guerriglia, con riprese a mano, nervose, le immagini sporche e un’ansia fastidiosa che non ti molla. E poi i silenzi, o lunghe conversazioni vuote. Qualcosa di molto realistico, quando non si tenta di interpretare chi non si conosce.
“Sei felice? Ti senti bene? Ti senti amato?” Chiede il dottore a Felix. “Sì”.
Basta poco a sistemare le relazioni con gli adulti. Ma qualcosa è destinato a cambiare.
Mas o menos.
Alessandro Tognolo – MCmagazine 60