La La Land

Damien Chazelle

Storia sentimentale intensa e burrascosa quella tra Mia e Sebastian che si sono trasferiti a Los Angeles in cerca di fortuna. Lei è un’aspirante attrice che, tra un provino e l’altro, serve cappuccini alle star del cinema. Lui è un musicista jazz che sbarca il lunario suonando nei piano bar. Ben presto tra i due esplode una travolgente passione nutrita da sogni intrecciati e da una complicità fatta di incoraggiamento e aspirazioni comuni. All’arrivo del successo si dovranno però confrontare con delle scelte che metteranno in discussione il loro rapporto. Si avverano i sogni? L’amore è per sempre? Il fascino del musical sì! (e.l.)

VENEZIA 73 – Coppa Volpi Miglior Attrice  [Emma Stone]


Miglior regia [Damien Chazelle]
Miglior attrice protagonista [Emma Stone]
Miglior fotografia [Linus Sandgren]
Miglior scenografia [Sandy Reynolds-Wasco e David Wasco]
Miglior colonna sonora [Justin Hurwitz]
Miglior canzone [City of Stars]

USA 2016 – 2h 7’

 

 

 

VENEZIA – Viviamo in un’epoca in cui il cinema è sempre meno magia, anche se sempre più mette in scena mondi e personaggi fantastici, al servizio dei quali vengono messi a disposizione mezzi faraonici ed effetti speciali di una sofisticazione inaudita. Quello che manca, per ricreare la magia, è di solito quell’ingrediente che consentiva alle storie di trasportare lo spettatore in un luogo lontano, dove le cose erano credibili pur essendo incredibili. L’innocenza, di questo stiamo parlando, è messa sempre più da parte, perché viviamo in un mondo in cui essa è scomparsa, e giustamente anche le storie da raccontare devono adeguarsi all’ambiente in cui vengono consumate. La cosa che stupisce di La La Land è che inizialmente sembra solo un musical come ne abbiamo visti già in passato. Non c’è niente di più classico, nel suo genere, di un incipit in cui, nel caos (in questo caso una highway congestionata dal traffico), due voci si ergono sopra ogni altra cosa. Lei è Mia, un’aspirante attrice che serve ai tavoli in un bar davanti agli studios di Hollywood. Lui è Sebastian, un pianista jazz idealista, che rifiuta di vendersi per inseguire la musica così come gli piace. Sembrano due loser destinati al naufragio, come tanti se ne possono trovare in un ambiente di squali, ma in loro, oltre alla speranza e ai sogni, si nasconde anche dell’autentico talento. La La Land ci trascina nella storia del loro incontro e della loro conseguente storia d’amore, sulle colline di Hollywood, in una contemporaneità dipinta come tale solo da qualche vago indizio che viene subito lasciato cadere, come uno smartphone che viene prontamente zittito.

 

Ma per il resto, la collocazione temporale della vicenda sembra aleggiare in un tempo imprecisato, in cui la regia del semiesordiente (e proprio non si direbbe) Chazelle si aggira come in un mondo fantastico, collocabile esattamente su una cartina geografica, ma dentro al quale può succedere di tutto. Ci sono dei piani, in questo film, che risultano sorprendenti anche solo per la mobilità della macchina da presa, che va a scovare la meraviglia anche in una festa in piscina. I numeri musical, invece, sottolineano le aspirazioni e i desideri: sono questi, malinconicamente introiettati in personaggi al di fuori del nostro presente, che tratteggiano quell’innocenza, quello stupore per la vita che sono la qualità più preziosa del film.
Perché al di là di tutte le considerazioni estetiche che possono caratterizzare un discorso su La La Land come un prodotto commercialmente perfetto (e perfetta sembra anche, in questa ottica, la collocazione in apertura di Venezia 73, che lo proietta idealmente sulla strada che porta agli Oscar, oltre che ad un lungo e proficuo passaparola tra il pubblico degli addetti ai lavori), quello che funziona egregiamente nel film, e che lo fa crescere dentro lo spettatore anche quando è passato del tempo dalla visione, è lo stupore contagioso che pervade elementi che il cinema non è più abituato a valorizzare con una tale magnificenza. La struttura temporale fluida e ondivaga della storia, in cui i personaggi si muovono come sospesi in un sogno, serve non ad eliminare la realtà, ma ad accettarne le crudeli asperità come parte di un gioco amaro ed inevitabile.

 

È un segno di grande vitalità per il cinema di questo decennio che un autore appena trentenne, e a malapena all’opera terza abbia ancora a cuore l’innocenza della visione come un valore fondamentale in cui si può muovere l’oggetto cinema. Damien Chazelle, classe 1985, appassionato di jazz, ha esordito ventiquattrenne con un musical a bassissimo costo oggi praticamente introvabile, Guy and Madeline On a Park Bench (2009) di cui su Youtube si può trovare qualche assaggio, ma si è fatto conoscere con il bellissimo Whiplash (2015), troppo poco visto nonostante tre Oscar (merita una riscoperta). Di quest’ultimo, La La Land sembra il gemello speculare: la maniacalità ai limiti del masochismo del batterista che voleva essere “il migliore” diventa qui la contagiosa vitalità di artisti che non sanno che dovranno perdere un po’ se stessi per realizzare i loro sogni. Il finale è di quelli che uno spettatore può portarsi dentro per sempre..

Pietro Liberati – MCmagazine 41

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