Seh-hee e Ji-woo sono una giovane coppia all’apparenza affiatata e in perfetta armonia. Lei, però, è quotidianamente pervasa dalla gelosia, e mal sopporta le occhiate del suo compagno verso altre donne. Spaventata dallo scorrere del tempo e dall’idea che lui si possa stancare del suo volto, la ragazza si convince che l’unica soluzione sia affidare il suo volto alla di chirurgia plastica…Kim Ki-duk sfiora il boom dell’estetica del bisturi e la doppia personalità. Un film sofisticato, inquietante e calibratissimo: ancora una volta la scenografia e le scelte formali assumono per il regista coreano un’importanza pari a quella dei personaggi.
Shi gan
Corea del Sud/Giappone 2006 (97′)
– Cineasta del silenzio, Kim Ki-duk realizza con Time la sua opera più discussa. Discussa, si badi, solo internamente, nel profluvio di parole che i protagonisti si rivolgono l’un l’altro, dacché molti critici festivalieri non hanno certo dovuto confrontarsi a lungo prima di decretarla opera irrisolta di un cineasta in declino. Alla distanza, possiamo dire che si siano sbagliati.
Delle due anime del cinema di Kim, l’una ellittica, l’altra esplicita, Time (in ciò ben più affine di quanto generalmente si voglia riconoscere alle atmosfere mute, ma improntate a un canonico sviluppo drammaturgico, del celebrato Ferro 3) si affida al didascalismo di una parlantina che denuncia sin dalle prime scene la natura isterica del rapporto tra i due innamorati protagonisti e accompagna con calcolato sadismo il loro incedere sul filo della paranoia. Come di consueto – e riallacciandosi in parte al precedente Bad Guy (2001), con cui condivide il principio di una trasformazione di sé che muove da un dato anzitutto estetico, qui la forma del volto, lì l’acconciatura dei capelli – il regista indaga la sua tesi piegando il quotidiano nella direzione dell’inconsueto, dell’eccezionale e inscenando un processo di seduzione e rifiuto che passa attraverso la
Timorosa di perdere l’interesse del suo uomo, See-hee si affida a un medico per trasformare il proprio volto e presentarsi a lui nelle vesti di una nuova ragazza. Come reagirà Ji-woo?
Nel II sonetto del suo canzoniere, Shakespeare si interroga sullo sfiorire della bellezza causato dal tempo; in Time Kim allarga (e, in qualche modo, rovescia) la questione: può l’innamoramento sopravvivere all’ostinato reiterarsi di una forma sempre uguale a se stessa? Contrariamente alla laconicità degli esordi, l’assunto è qui apertamente sviscerato in un serrato – e, invero, a tratti artificioso – botta e risposta tra i personaggi. Quel che sopperisce alle ridondanze della dialettica è, come sempre, la straordinaria concentrazione delle immagini e la loro tensione pittorica. Su tutte merita un accenno l’invenzione che sovrappone al volto della protagonista, dopo l’operazione che ne ha alterato i connotati, una maschera di carta con le vecchie fattezze. Così See-hee si presenta all’amato nel bar dove erano soliti incontrarsi per rivelargli la verità e Kim, da maestro qual è, dirige la scena alternando alle inquadrature strette sui due amanti, fra cui si consuma un melodramma di spietata ironia, quadri più larghi a includere il pubblico degli avventori, dove la natura farsesca della situazione si dichiara senza riserve. Nella medesima scena il dramma e la sua decostruzione.
Matteo Pernini – mcmagazine 54
altre voci…
L‘amore è capace di resistere al tempo? Nel rapporto di coppia che sta durando da due anni fra una lei, Seh-hee e un lui, Ji-woo (Ha Jung-woo, un divo del cinema orientale), un piccolo incidente stendhaliano accentua nella donna l’ossessivo timore di veder spegnersi il fuoco della passione. Per reagire a questa prospettiva, Seh-hee prende una folle decisione: sparisce insalutata e dopo essere passata attraverso le manipolazioni di un chirurgo plastico si ripresenta a Ji-woo con un altro volto e il nome, diverso seppur simile, di See-hee (la brava interprete è Sung Hyun-ah). Arrivato all’opera numero 13, il 45enne coreano Kim Ki-duk film successivo in archivio si conferma uno fra i più interessanti cineasti della sua area, anche se alla vena poetica del capolavoro Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003) si va man mano sovrapponendo un’ispirazione più fredda e una sapienza intellettualistica (Ferro 3, La samaritana).
La matrice remota di questo stile va cercata dalle parti di Michelangelo Antonioni, ma qui c’è l’impronta di una spiritualità orientale e di una serpeggiante sensualità. Come suggerisce il titolo, Time è una riflessione sul tempo che passa, sull’impazienza dell’effimero e sull’anelito a penetrare in profondità i misteri dell’anima. Ancora una volta la scenografia assume nelle scelte formali di Kim Ki-Duk una particolare importanza, vedi l’ambientazione di alcune fondamentali scene nel parco delle sculture di Baemigumi, celebre località poco lontana da Seul che si raggiunge via mare: i protagonisti si muovono tra le opere dell’artista Lee li-ho, collocate lungo la spiaggia, che simbolicamente rispecchiano il gioco pericoloso dei sentimenti e delle pulsioni sessuali. Il trascorrere delle varie identità, quando anche l’uomo entra nella logica della trasformazione facciale, allude pirandellianamente all’impossibilità di conoscersi e farsi riconoscere in un crescendo di tensioni nevrotiche destinato a sconfinare in un delirio tragico. Time è un film sofisticato, inquietante e calibratissimo.
Alessandra Levantesi – La Stampa
Abitato da personaggi estremi e quasi caricaturali (l’eccessiva ossessività di lei, l’attonita superficialità di lui), Time si presenta come un melodramma dalla struttura ciclica e dall’approccio gelido, che rende impossibile qualsiasi tipo di immedesimazione. Per il regista Kim Ki-duk è giunto il momento di riflettere sull’idea di Tempo, in un percorso iniziato con il precedente L’arco (2005) e che troverà il suo pieno compimento con Soffio (2007). L’opus numero 13 dell’autore coreano sancisce inoltre il passaggio a una logica – visiva e concettuale – più dichiaratamente “pop”, quasi da “blockbuster” in miniatura. Si tratta di un cambiamento significativo, che se da un lato allarga il bacino d’utenza, dall’altro semplifica e diluisce la potenza del messaggio: i dialoghi si fanno fin troppo espliciti e pleonastici, i simbolismi a tratti sfociano nello stereotipo o portano a vicoli ciechi, la sceneggiatura percorre alcune – seppur affascinanti – scorciatoie (su tutte, la rottura della quarta parete da parte di Seh-hee, che guardando la cinepresa si sfoga direttamente con lo spettatore). Nonostante questi limiti, Time aggiunge comunque un tassello importante alla filmografia di un cineasta che non smette di interrogarsi sul destino e sull’amore, analizzando da punti di vista obliqui gli esseri umani e la società contemporanea. Imperfetto, ma ricco di suggestioni e dotato di un soggetto di partenza di notevole spessore…
Longtake
“Ci ameremo per tutta la vita?”. Diciamoci la verità: questa domanda, prima o poi, ce la siamo posta tutti. Pochi però hanno “preso la situazione in mano” come Seh-hee. D’altronde, spaventata dall’idea che il trascorrere del tempo potesse indebolire la passione del suo uomo, la donna non ce la faceva più. Era diventata sempre più gelosa, fino a rendere il rapporto impossibile. Poi la decisione: Seh-hee scappa e si sottopone a un intervento di chirurgia plastica: solo così, ne è certa, riaccenderà la fiamma della passione. Lui, però, nel frattempo si sente solo. Per questo torna nell’isola dove ha passato momenti indimenticabili con l’amata. Ed è lì che incontra una donna… Time, tredicesima opera di Kim ki-duk, è un film assolutamente diverso dagli altri lavori del regista coreano. Qui, al posto dei lunghi silenzi carichi di significati, troviamo dialoghi anche serrati e una regia realistica. Ma la profondità è quella di Kim ki-duk. Niente è per sempre, ci rammenta l’autore. E, per mettere a fuoco una questione così filosoficamente universale, sceglie una protagonista odiosa, la donna che nessun uomo vorrebbe mai incontrare. E nella quale nessuna donna si vorrebbe immedesimare…
Roberta Bottari – Il Messaggero